Libri. Il “Romanticismo d’acciaio” tra arte e guerra in una temperie totalizzante

Arno Breker, porte flambeau et porte glaive
Arno Breker, porte flambeau et porte glaive

“Un popolo è grande a patto che sappia far la guerra e l’arte”. Ed è all’arte quindi che si rivolge Joseph Goebbels nel discorso pronunciato in occasione dell’apertura della Camera della Cultura del Reich, il 15 novembre del 1933. Le edizioni di Ar ne pubblicano il testo, accuratamente bilingue, con illustrazioni studiate di Curzio Vivarelli e tre precisazioni necessarie in coda al testo; il tutto ad incorniciare “Il romanticismo d’acciaio”, che si oppone alle romantiche azzurrità nostalgiche, con la durezza dell’acciaio; acciaio che nasce dalle fiamme della grande guerra.

La rivoluzione cui ha teso fino alla fine il nazionalsocialismo è stata una rivoluzione totale e l’arte ne doveva fare parte, perché essa – come Goebbels conferma nel suo discorso – “non è concetto assoluto, conquista la propria vita soltanto entro la vita del popolo”. Al di fuori di questo parametro, l’arte per l’arte finisce con lo sfociare nell’anarchia e si esime l’artista dall’essere “interprete toccato dalla Grazia”, interprete di un ritorno all’ordine, alla Germania, giovane, potente, rivoluzionaria, bella, all’altezza della propria epoca. Una Germania in grado di costruire qualcosa che duri, pur se costretta alle rovine.

Un’opera di Mario Sironi

Un discorso sull’arte come caposaldo di un progetto politico più ampio potrebbe oggi risultare un’assurdità, nella misura in cui l’arte e la cultura in sé non occupano che una posizione di sottordine rispetto alle più urgenti questioni economiche. Eppure vi è stato un tempo in cui la Germania, l’Italia e una parte del mondo hanno creduto che esso fosse un impegno di primissimo piano, per uno stato che voglia dirsi sovrano.

Goebbels comandante e ideologo della nuova Germania fissa le linee guida destinate ad una umanità inerme, impigrita nelle abitudini quanto fossilizzata nelle idee comuni, nei preconcetti serviti sui banchi di scuola. Sfidando i timori dinanzi alla tragicità dell’esistenza, la ricostruzione nazionalsocialista voleva prevedere un “ritorno all’ordine”, in senso politico, culturale, economico. Dinanzi a questa esigenza vitale il gusto personale di chi, sfoggiando un atteggiamento anarchico, si offre come sperimentatore di eresie politiche, non poteva che essere sacrificato. Così aveva fatto Goebbels, così chiedeva di fare al suo popolo. La libertà in fondo ci ha insegnato che la classicità è possibile solo nella dimensione pubblica e l’arte come braccio politico deve rispondere a quelle influenze nazionali di gusto di cui a lungo ha parlato Marcello Piacentini.

Quanto di questo discorso ha compreso il popolo cui Goebbels apparteneva è facile dire, basta osservare la ricostruzione che ha seguito il bombardamento delle colonne su cui si stava costruendo la nuova nazione. Ma le idee non soffrono costrette nei confini geografici o temporali, esse viaggiano con la velocità e l’infallibilità dello spirito. Ci fu chi seppe tradurre gli esiti di un percorso annunciato. Il profeta ha parlato comunque alla genia che riusciva ad ascoltarlo. E ascoltò Sironi, a cui il testo di Ar riserva un omaggio adeguato, che con genio altero ha fissato una luce nella storia dell’arte, non compromessa dal silenzio della censura. La solidità della sua eccezionalità ha resistito all’isolamento politico, al tradimento del merito e troneggia nel 2015 a Roma con una mostra al Vittoriano, che per quanto restia a ripercorrerne la passione ideale, ne riconosce la grandezza e in doveroso silenzio la studia e venera.

*”Romanticismo d’acciaio” di Joseph Goebbels (pp. 76, euro 10, Edizioni di Ar)

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Marina Simeone

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