No alla Rai privatizzata. La scommessa è farla tornare fucina di avanguardie

Il Festival di Sanremo è stato uno schifo? Sicuramente sì. Ma non è una giustificazione per smantellare la Rai, per demonizzarla facendone precipitare il valore in vista di una svendita agli amici degli amici. Non c’è dubbio che i motivi per attaccare la programmazione Rai siano davvero tanti. Dal fastidioso pretino Fazioso agli incredibili Tg della Berlinguer e compagni sul 3; dagli squallidissimi giochini idioti per megapremi ai patetici tentativi di imitare i telefilm americani.

Tutto vero, tutto giusto. Ma qual è l’alternativa? Quella di privatizzare tutto? Come se l’offerta privata fosse minimamente migliore. D’accordo, il pessimo Fazio è inimitabile, ma quanto a faziosità Gad Lerner e la sua banda non sono meglio della banda Berlinguer. E se vogliamo confrontare la qualità ed il livello culturale dei programmi, davvero il Grande Fratello rappresenta un modello da seguire? E l’informazione di Canale 5, al di là degli spottini garantiti al Cavaliere, è preferibile a quella del Tg1? E il soporifero Tg di Fede deve diventare il simbolo della libertà di stampa?

Ci sarà una ragione se l’unico tg credibile nell’emittenza privata di carattere nazionale è ormai Striscia la notizia.

E allora perché questi attacchi alla Rai? È la medesima strategia che porterà il governo dei banchieri a cedere una parte di Finmeccanica: si demonizzano i vertici per gettar discredito sul gruppo, si fa calare il valore delle aziende di Finmeccanica e le si vendono agli stranieri. Tra l’altro la criminalizzazione si applica all’informazione Rai solo per cacciare gli avversari politici, come è accaduto con Minzolini. Mentre invece la faziosità del Tg3 viene spacciata per informazione democratica.

Eppure le differenze, positive, della Rai dovrebbero essere abbastanza evidenti. A partire dall’essere un’azienda pubblica, dunque teoricamente di tutti e non di qualche editore con interessi economici particolari. Vogliamo tv delle banche? Che ci spieghino quanto è bello regalare i soldi agli istituti di credito che poi ce li prestano a tassi da usura? Vogliamo una Rai di qualche industria che trasformi i programmi in spot a favore della distruzione dell’ambiente perché i fumi delle industrie fanno bene e la sicurezza sul lavoro è solo uno spreco di soldi?

Non bisogna neppure dimenticare l’immenso archivio Rai. Quello che sarebbe sufficiente per mandare avanti anni di programmi di elevato livello culturale. Quello che manca non è la qualità potenziale, ma la sua trasformazione in programmi reali.

Persino il canone Rai, considerato un assurdo balzello in rapporto allo squallore dei programmi, non è eccessivo in assoluto. Basti raffrontarlo ai costi di un abbonamento Sky. Il privato costa 10 volte tanto e una volta privatizzata la Rai ci spiegherebbero che è giusto pagare molto di più, se si vuol vedere qualcosa di decente. O anche di indecente, perché a quel punto non ci sarà più alternativa.

Tutto questo, però, non significa rassegnarsi ed accettare la Rai per l’immondizia che ci propina. Ma invece di latrare, occorrerebbe cominciare ad intervenire per cambiare. Intervenire ad ogni livello. Boicottando, ad esempio, i programmi indegni. E boicottando chi sponsorizza questi programmi. Esattamente come avviene negli Stati Uniti, dove i fondi di investimento devono rendere conto ai propri azionisti degli investimenti pubblicitari in programmi non politicamente in linea con il pensiero degli investitori. Ma in Italia non funziona: si preferisce ululare e non si riesce a boicottare neppure l’Omsa che licenzia le lavoratrici italiane per spostare la produzione all’estero. Figuriamoci se la pecora italiana sarebbe in grado di trasformarsi in lupo e cambiare canale quando assiste alla faziosità trasformata in show o in tg.

Basterebbe assestare i colpi di ascolto che hanno colpito la Dandini dopo il trasloco sui canali privati, per rendersi conto che la nomenklatura di sedicenti artisti progressisti è solo un bluff.

E poi occorrerebbe che i vertici della Rai trovassero un po’ di intelligenza e coraggio per rilanciare l’azienda. Ignorando anche l’Auditel, perché la missione di una tv sovvenzionata dagli italiani non è di fare concorrenza a Mediaset, ma di fare cultura. E allora la Rai dovrebbe garantire qualità, ma anche pluralismo. Cessando di essere la scialuppa di salvataggio ad uso esclusivo dei giornalisti di testate rosse in difficoltà. Da Paese Sera all’Unità.

E iniziando a far pulizia di personaggi inutili, di vecchie cariatidi, di parassiti, di difensori dell’immobilismo. Dando spazio a giovani, a forze nuove, alle idee. I talenti non si reclutano nei soliti spettacolini per aspiranti cantanti e ballerini, ma le qualità esistono e non è difficile individuarle. La Rai deve tornare ad essere l’avanguardia, lo spazio per la sperimentazione. Il luogo dove idee e sogni si confrontano e si trasformano in programmi. Con una funzione positiva e non solo come contenitore delle peggiori nefandezze italiche, al costante inseguimento dei peggiori istinti da vellicare.

Impossibile? No. Indubbiamente difficile, per lo meno sino a quando verrà garantito lo strapotere dell’Usigrai, impedendo a tutti i dipendenti di essere protagonisti del cambiamento. E difficile sino a quando i rappresentanti del centrodestra nel cda non troveranno una briciola di coraggio per opporsi alle decisioni di una sinistra che comanda anche quando è in minoranza. Spacciando per grande stagione Rai quella dei “professori”, ossia dei responsabili effettivi del declino dell’azienda pubblica.

Leo Junior

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