La storia. Francesco Giuseppe: la sua fine equivalse al declino dell’impero

Francesco_Giuseppe_Imperatore-1Il fiume della storia scava, infrange e travolge trascinando con sé i volti e le memorie nell’oblio dei flutti, fino al crepuscolo dei tempi: le acque della terra si riuniranno agli oceani, mentre occhi stanchi e corpi intatti, serbati dall’inossidabile potenza del fiume, riaffioreranno dai flutti al crepuscolo dell’ultimo giorno.

Il fiume impetuoso della storia scorre implacabile travolgendo gli umili arbusti, e bagna le umili fronde dei tristi salici. Travolge, in piena, le dighe e le costruzioni superbe che gli uomini pongono sul suo cammino. Bagna, travolge, annienta. Eppure massi dalla punta aguzza sporgono tra i flutti: solo essi, come pietre levigate dalle acque e dal tempo, resistono al fiume, incatenate sui fondali di sabbia e fango, incatenate alle profondità monolitiche della storia. Solo essi sopravvivono al fiume in piena, resistono alla cascata impetuosa e, talvolta, ne frenano la violenza. Le loro punte, inondate dal sole, rilucono di timidi bagliori nel tramonto.

Uno di loro, roccia bianca tra le acque in piena, fu Francesco Giuseppe, Imperatore d’Austria, e di tutte le terre le cui corone i suoi avi avevano provveduto acquisire per diritto di nascita e per conquista, per matrimonio e per diplomazia, e che ora il suo capo stanco si trovava a reggere: Maestà Apostolica d’Ungheria, Re di Boemia, Re di Dalmazia, Croazia e Slavonia, Re di Galizia e Lodomeria, Re d’Illiria, Re di Gerusalemme, Arciduca dell’Austria Superiore e dell’Austria Inferiore, e molte altre ancora.

Il vecchio gentiluomo, Augustus Senex, è raccolto in preghiera sotto le guglie dello Stephansdom. Prega per i popoli della monarchia, prega per i suoi morti, gli spettri di una vita di glorie e sofferenze… Massimiliano, Rodolfo, Elisabetta, e poi Francesco Ferdinando, non certo il più amato dei nipoti. Prega per i suoi soldati nelle fredde trincee in Galizia, sul Carso, in Serbia; prega per i suoi popoli, e per la sua anima antica intrappolata in corpo stanco che, a sua volta, la candida uniforme sembra trattenere a stento su questa terra. Tu corpo mortale, anima d’imperatore, quante volte peccasti, Maestà? Sembra sussurrargli un confessore, avvolto nell’ombra della tonaca oscura. Lascia che penetri oltre quella tua coltre di ghiaccio, la tua coscienza è per me un libro aperto, un codice che i miei occhi decifrano senza sforzo. Quante volte peccasti e non ricaddero i tuoi peccati su questo mondo? Non versasti il sangue nella tua superbia, non amasti il tuo potere di autocrate, pallido spettro della gloria di Dio? Eppure affrontasti il calvario della tua gloria, prigioniero in questo corpo, esule nel mondo, e cingesti la corona di spine dei Lorena e tu sapevi… sapevi fin da Solferino che la morte, una morte gloriosa sul capo, non è che una gloria per i vili, una facile vittoria. No, tu fosti il κατέχον, il freno, la giusta misura, ed ora, quando ogni cosa si dissolve nella morte, il tuo tempo è compiuto e anche il κατέχον cederà, inevitabilmente. Nella tua caduta, Maestà, trascinerai mondi e popoli, e un uomo nuovo sorgerà delle macerie, un uomo di fronte al quale anche tu, superbo imperatore, avresti tremato. Ma tu non vedrai la fine, no, benedetto sei tu! Tu non vedrai la rovina del mondo! Gott erhalte, Dio conservi, lo cantano i tuoi popoli, gli sloveni, i galiziani polacchi e ruteni, gli ebrei col caffettano di Boryslaw, i mercanti di cavalli della Backsa, i caldarrostai di Mostar[1]Ed ora eclissati, dissolviti nella preghiera, finché ogni cosa avrà fine.

Le campane suoneranno a morto, le campane dello Steffl, di San Carlo, di Budapest e di Praga, fin nei villaggi sui Carpazi, fin dove l’Occidente si congiunge all’Oriente. Bisanzio è caduta, l’imperatore è morto.

Molto si è scritto su di lui, Augustus Senex: dalla biografie celebrative dei suoi contemporanei, a quelle imparziali ed accurate, ma non per questa ragione meno profonde, degli storici: Alan Palmer, Franco Cardini, e il principe dei biografi Franz Herre. La sua figura, benevola o maligna, ricorre inequivocabilmente nelle memorie e nei ricordi dei suoi contemporanei, mentre il suo nome, e quello dell’Impero che lo vide sovrano, riecheggiano in tutta la letteratura mitteleuropea del secolo scorso, persino nelle sue pagine più beffarde, ma le parole più belle e toccanti sono quelle che Joseph Roth, forse il più grande tra i cantori della Mitteleuropa, gli dedicò in tre opere: Radetzkymarsch, Die Kapuzinergruft e Die Büste des Kaisers.

Riesce difficile non rapportarsi a questa figura, tragica e superba al tempo, la cui vita terrena attraversò un intero secolo, tra i più pregnanti di storia europea e mondiale, senza che i sentimenti più contrastanti non prendano il sopravvento, difficile restare impassibili. Se per molti fu, e forse continua ad essere, per antonomasia l’impiccatore, per molti altri la figura rassicurante del vecchio signore di Schönbrunn, coi favoriti bianchi e il capo leggermente reclinato, non poteva rappresentare altro che il padre amorevole di tutti i popoli dell’impero, il loro protettore. Nel variegato giudizio che i contemporanei tributarono ad uno dei sovrani più longevi della storia, Francesco Giuseppe ci appare come il patriarca benevolo e il freddo burocrate privo d’immaginazione, come il marito sempre fedele nonché un po’ Biedermeier e il padre comprensivo ma mediocre, come l’ultima rocca dell’ancien régime e come il vetusto ostacolo tra il passato e l’avvicendarsi di tempi e uomini nuovi. Probabilmente nella figura dell’ultimo imperatore convissero in parte tutti questi aspetti.

Francesco Giuseppe nacque a Vienna, presso il castello di Schönbrunn, il 18 agosto 1830, e si spense ivi il 21 novembre 1916: ottantasei anni d’età, e quasi sessantotto di regno. Crebbe in mezzo a uomini, il nonno imperatore Francesco, Metternich, Radetzky, che avevano raggiunto la maggiore età prima della rivoluzione francese e che a loro volta furono educati da figli del XVIII secolo, si spense quando le ombre oscure del nazionalismo e l’epoca della tecnica senz’anima avevano avvolto l’Europa. Cinse la corona nel corso dei moti del ’48, e fu forse l’ultimo dei grandi uomini del XIX secolo a scomparire: Bismarck, Cavour e Disraeli, la regina Vittoria e Napoleone III, Marx e Dostoevskij, tutti loro lo precedettero nel sepolcro. Divenne imperatore e re nei giorni di Radetzky e del quadrilatero, vide il suo regno perdere peso politico e lentamente disfarsi, ma non visse abbastanza per vedere l’ultimo Asburgo allontanarsi da Vienna in una carrozza blindata.

Il crepuscolo tardava a giungere per il gran vecchio d’Europa curvato sotto il peso dei suoi anni, e la sua figura sembrò acquisire un alone di mito, di leggenda. Egli, devoto figlio dell’impero comprese che la sua vita avrebbe rappresentato quell’idea di impero della quale egli sarebbe stato l’ultimo epigono. Egli fu l’Impero, lo incarnò nelle sue contraddizioni e ne rappresentò allo stesso tempo il custode. La sua fu una vita costellata di disgrazie negli affetti: gli furono strappati per primi il fratello Massimiliano, fucilato in Messico, e l’unico figlio maschio Rodolfo, suicida a Mayerling; poi la moglie, la leggendaria imperatrice Elisabetta, assassinata a Ginevra per mano di un anarchico, ed infine il nipote Francesco Ferdinando a Sarajevo. Eppure seppe mettere da parte la propria vita privata, i propri desideri ed ambizioni per farsi servo del suo regno e del sacro dovere di mantenerlo in vita. Sembrava che l’esistenza stessa della monarchia danubiana e il destino incerto dei suoi popoli dipendessero solamente dalle forze, ormai stanche, del suo imperatore. Rappresentò forse un κατέχον, nell’accezione paolina del termine, un freno allo svolgersi dei tempi e all’esplosione del più rovinoso nazionalismo, ma nulla avrebbe potuto impedire alla storia di percorrere il suo cammino. Tra tutti gli Asburgo forse solo un’altra figura è accostabile a Francesco Giuseppe, un’altra figura tragica: l’imperatore Carlo V. Fu anche questi l’Ultimo, l’ultimo cavaliere e l’ultimo imperatore della Res publica Christiana, così come Francesco Giuseppe fu l’ultimo sovrano ad incarnare l’idea austriaca di universalità. Entrambi ebbero l’illusione, o forse solo tentarono, di arginare la storia, ma il tempo avrebbe vinto su di loro. Francesco Giuseppe, il κατέχον, doveva ben saperlo, fin da quando cinse la corona di spine dei Lorena, giusta metafora del suo cammino umano. La tragicità umanità della sua figura risiede proprio in questo: nella volontà di compiere il proprio dovere, la propria vocazione, regnare e ritardare gli eventi, pur consapevole che tutta sarà vano, che il κατέχον un giorno cederà e, mentre il sigillo sarà rotto, la catastrofe e il disfacimento trionferanno. La guerra mondiale fu l’ultimo ineluttabile atto del dramma: la rottura del sigillo. Lo sapeva, Francesco Giuseppe, cosa avrebbe significato quella firma su quel foglio di carta pregiata, lo sapeva fin da Solferino. Sapeva che avrebbe significato morte e odio, e che nulla avrebbe potuto impedirlo.

Con Francesco Giuseppe ebbe di fatto fine ciò che era stato l’impero austro-ungarico, affidato ormai a brandelli nelle mani del nipote Carlo, oggi beato della Chiesa Cattolica. Ma con esso non tramontò solo un’istituzione, un sistema di potere e il dominio di una famiglia, gli Asburgo, sull’Europa orientale. No, l’impero che Francesco Giuseppe incarnava, aveva finito per rappresentare, forse suo malgrado, un’entità superiore, la stabilità nella continua mutevolezza, la consuetudine nel cambiamento e il familiare in mezzo all’insolito. Così ciò che era straniero gli diventava di casa senza perdere il suo colore, e la patria aveva l’eterna magia dell’estero[2]. Insomma, qualcosa che solo la poesia della letteratura mitteleuropea, da Joseph Roth a Gregor von Rezzori, da Franz Werfel e Lernet-Holenia, ha saputo spiegare, e per la quale non potrebbero valere né le formule della scienza politica né della sociologia. La sua eredità — ai popoli dispersi della monarchia, uniti solo nella comune, perduta identità imperiale, perdurò dando vigore ad una delle più straordinarie stagioni culturali dell’Europa, viva soprattutto nella sua componente ebraica, finché le nubi oscure del nazionalismo non finirono per avvolgere e distruggere definitivamente le ultime vestigia di quello che potremmo definire il mito asburgico.

Il risveglio d’interesse proprio nei confronti di quel meraviglioso e composito arazzo che è la letteratura mitteleuropea verificatosi nel corso degli ultimi decenni, si è accompagnato ad un’approfondita opera di studio e rivalutazione critica del passato asburgico e della stessa istituzione imperiale compiuta da una vasta compagine di storici ed intellettuali, Angelo Ara e Adam Wandruszka, Claudio Magris e István Deák. Si avverte la necessità di recuperare quella parte del proprio passato che si era voluto (o forse, dovuto) cancellare, ma non per far risorgere l’impero degli Asburgo dalle sue ceneri, come forse desidererebbe qualcuno: non si tratterebbe che di una vana illusione, frutto di un nostalgismo senza criterio, puro kitsch. No, alla luce tanto dei dolorosi avvenimenti storici che hanno visto protagonisti paesi dell’ex corona asburgica, quanto e soprattutto nella prospettiva di una società che sembra non attribuire alcuna importanza al passato e alle radici dell’individuo, la riscoperta e la rivalutazione critica del passato si pongono come un traguardo necessario e doveroso: non ti chiedo di approvare, ma di capire…, come Gregor von Rezzori faceva dire da Madame Aritonovič alla piccola Tanja in Un ermellino a Cernopol.

Francesco Giuseppe, l’unico regnante conosciuto da generazioni di austriaci, se ne andò in una notte di novembre, il vecchio imperatore di Cacania, e non vi fu a celebrarlo il fasto barocco che per tradizione accompagnava gli Asburgo alla loro ultima dimora terrena, la Cripta dei Cappuccini.

“…Dal cielo tambureggiava una fitta pioggia inesauribile. In pieno mezzogiorno le strade di Vienna, capitale e residenza, erano invase da scrosci del diluvio universale e dai crepuscoli di un novembre apocalittico. Le lampade ad arco in tutta la città, velate di nero, ardevano con cupi sguardi dubbiosi, le fiamme a gas, accese, allargavano mani di fuoco tremanti. Lungo le strade e le piazze (…) stava schierata su molte file la spalliera delle truppe. Uomini in grigioverde, con l’elmo in testa, e brutte uniforme lacere: fra loro dei vecchissimi e dei giovanissimi. Nonostante l’oscurità, la pioggia e il freddo, non desideravano che il tempo passasse più veloce. Molti di loro si aggrappavano ad ogni minuto, perché l’indomani potevano essere di nuovo nelle trincee. Dietro la spalliera delle truppe si accalca il popolo viennese, non più una folla gaudente, ma una massa grigia, oppressa. (…) Molti piangevano. Cesare era morto e si sentiva nell’aria un terribile risveglio. Ma vi erano anche i combattenti feriti, con immense fasciature, con grucce e bastoni, che animavano variamente, con macchie desolate, il grigiore generale. Chi li vedeva aveva subito nelle nari l’odore della guerra, che gravava sopra l’Impero con le sue invisibili esalazioni, l’odore di terra fangosa, di suppurazione e di iodoformio (…) La sublime e spettrale apparizione passò, dileguandosi nel crepuscolo della catastrofe di un mondo…”[3]

Il sigillo era rotto, e si avvicinava il crepuscolo. La storia era compiuta, sciolti i lacci che ancora legavano il Titano.

“…La Cripta dei Cappuccini, dove giacciono i miei imperatori, sepolti in sarcofaghi di pietra, era chiusa. Il frate cappuccino mi venne incontro e chiese: -Che cosa desidera?-

-Visitare il sarcofago del mio imperatore Francesco Giuseppe-, risposi.

–Dio la benedica- disse il frate, e fece sopra di me il segno della croce, -Dio conservi!- gridai.

–Zitto!- fece il frate.

Dove devo andare, ora, io, un Trotta?…”[4]

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[1] Joseph Roth, Die Kapuzinergruft, trad. italiana, La cripta dei Cappuccini, Adelphi, Milano, 2010.

[2] Joseph Roth, Die Büste des Kaisers, trad. italiana, Il busto dell’imperatore, Passigli Editore, Firenze, 2011.

[3] Franz Werfel, Aus der Dämmerung einer Welt, trad. italiana Nel crepuscolo di un mondo, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1950.

[4] Joseph Roth, Die Kapuzinergruft, trad. italiana, La cripta dei Cappuccini, Adelphi, Milano, 2010.

Niccolò Nobile

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