Tradizioni. Il solstizio come rito identitario di una comunità

Il solstizio d'estate nella Cattedrale di Bari
Il solstizio d’estate nella Cattedrale di Bari

Non è questione di essere pagani, cristiani, buddisti o musulmani. La faccenda è diversa. Aver voglia di guardare il mondo da un’altra prospettiva. Magari da un’alba. Che non è come le altre. Che pure sono rare a vedersi se si deve andare al lavoro e se si devono portare i figli a scuola.
Un’alba speciale, come ne capitano due ogni anno. Quelle dei solstizi. Che sono fenomeni astronomici, per carità. Più frequenti del passaggio di una cometa, molto meno di una luna piena. Però il solstizio segna la nostra vita e quella della natura, la divide, la bipartisce, la inserisce in una ruota, dove tutto ritorna, mentre – prigionieri della nostra quieta disperazione quotidiana – come diceva Henry David Thoreau, camminiamo dritti lungo un percorso lineare, apparentemente senza possibilità di scampo, dall’inizio verso la fine delle nostre esistenze, con gli occhi bassi, senza guardare il cielo. Invece il solstizio trasforma questa linea in un cerchio e dà nuove speranze. Forse. Quanto meno ci fa alzare lo sguardo.

Di sicuro di speranze ne dava a chi, beandosi della propria gioventù e della mancanza d’impegni mattutini, poteva permettersi di trascorrere quelle notti di vigilia sulla cima di una montagna, intorno ad un fuoco, insieme ad amici ed amiche che, almeno in quelle ore, sembravano fratelli e sorelle.
Tutte le comunità hanno bisogno di riti per riconoscersi, per rinsaldare i propri legami. Per tanti anni il rito e la festa di molte comunità politiche, o metapolitiche, pur estremamente diverse e variegate, è stato proprio il solstizio.

No, non si scannavano animali, né – tanto meno – si invocavano i demoni. La realtà, forse, era molto più banale, perfino un po’ scoutistica. Si preparavano le salsicce da cuocere sul fuoco, il calderone dove scaldare la zuppa, i dolci solstiziali. Si mettevano insieme gli spartiti delle nostre canzoni, magari facendo qualche fotocopia, che non tutti se li ricordavano a memoria, i testi. E si saliva su, per vie impervie, verso la montagna, la nostra montagna d’Appennino, dove ad accoglierci e a riconoscerci c’erano perfino i resti di antichi templi italici.
Poi c’era sempre qualcuno più bravo ad accendere il fuoco e qualcun altro più volenteroso disposto ad andare a far legna.

Una straordinaria notte normale, al freddo (d’inverno) e al fresco (d’estate), passata tra chitarre, battute, scherzi, racconti, qualche buona lettura, vino e tante stelle da guardare, aria pulita da respirare, insieme alla libertà. Fino alle prime e incerte luci dell’aurora, quando insieme alla brezza che precede il sorgere del sole, in faccia a tutti, anche al più stralunato e disincantato, arrivava chiara la percezione dell’emozione del sacro e la linfa di quelle radici profonde che secondo alcuni in effetti non c’erano, o peggio non ci sono mai state. Ma forse è solo che adesso non le vediamo più, perché l’età c’ha reso ancor più miopi.
Accomiatandosi, dopo aver ammirato il ripetersi del miracolo solstiziale, non avevi né la voglia, né la capacità di aggiungere granché: solo l’augurio di buon Sole nuovo. O di buona luce, gute Licht, come usava tra i Wandervogel.

Una di quelle notti d’inverno un amico disse che era bello pensare come nello stesso momento altre piccole comunità, su tante altre montagne d’Italia e d’Europa stessero strette intorno ai fuochi ad aspettare la fiamma più grande, il sorgere del sole.
Chissà se ci sono ancora e cosa aspettano oggi. Forse solo un tweet di Renzi, o di Salvini, per iniziare un’altra giornata con lo sguardo basso.

Gian Luca Diamanti

Gian Luca Diamanti su Barbadillo.it

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