Sacro. La secolarizzazione tra fondamentalismo e “atei devoti”

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V’era un tempo in cui il sacro permeava la società in ogni sua parte, in cui pensiero e politica erano teologia, mentre la fede di un umile o d’un bambino, traboccante come il vino nelle otri di Canaan, riempiva il mondo e i cieli della Grazia di Dio.
Per tutto il mondo antico l’umanità si è nutrita di una dimensione sacrale e ne è vissuta immersa, e non per questo ha mancato di permettere al pensiero umano di elevarsi forse alle vette più alte. Dall’incontro tra il cristianesimo dei primi secoli, la cultura classica, la romanità e l’apporto dato dai popoli del nord, nacque il Medioevo, l’epoca di mezzo che, nonostante le sue brutture e l’orizzonte limitato, fu forse quella in cui la vita nella sua interezza, vissuta come una scansione di “momenti sacri”, così come la certezza della propria piccolezza, del proprio essere inermi dinnanzi al mistero di Dio e della morte, ebbe forse ruolo centrale. Il contadino con la fronte madida, esausto per la fatica nei campi; il monaco o il certosino dopo una giornata di preghiera e di lavoro, o di meditazione, o dopo aver trascritto, con infinita pazienza, l’ultima pergamena della chronica o dell’antico testo, Seneca, Aristotele, maestro di color che sanno, o l’Arpinate; il feudatario al termine della caccia di fronte alla cerva abbattuta, il mercante nei suoi viaggi, e, persino, il guerriero dal cuore esultante dopo una vittoria, tutti loro, dinnanzi alle gioie, piccole glorie commisurate ad ognuno, all’ora del vespro non avrebbero dimenticato di ricordare: non nobis Domine, non nobis, sed nomini tuo da gloriam.
Ancora Thomas Stearns Eliot ricordava nei suoi versi:

“Solo la fede poteva aver fatto ciò che fu fatto bene,
l’integra fede di pochi,
la fede parziale di molti.
Non avarizia, lascivia, tradimento,
invidia, indolenza, golosità, gelosia, orgoglio:
non queste cose fecero le Crociate,
ma furono queste che le disfecero”

Il sacro e la fede, nel bene e nel male, permeavano un mondo con i sui ritmi, il suo tempo lento e misurato, la coscienza dei singoli. Non solo l’Occidente, la Cristianità d’allora, ma anche le terre rette dalla religione del Profeta così come ogni società non ancora secolarizzata (e le ultime, della quali purtroppo poco sappiamo, sono state spazzate via dalle ventate del progressismo coloniale e civilizzatore) rientravano in questo mondo. Un arazzo dai colori e dalle forme più svariate, filato però su un unico, elementare telaio: quello della sacralità di Dio, del tempo e dello spazio.
Non si tratta qui di analizzare a ritroso nella storia umana le tappe di quel processo graduale che, a partire dall’Occidente e grossomodo dai secoli XIV-XV, ha condotto, toccando il suo punto culmine nel corso dell’ultimo secolo, alla quasi completa laicizzazione, o meglio: secolarizzazione, della società, dalle correnti di pensiero ai costumi fino alla coscienza dei singoli. Lo si tratterà in questa sede come un fatto, un fatto compiuto del quale prendere atto, gioirne o piangerlo a seconda del caso; né tanto meno si tratterà di mettere in discussione la validità di un pensiero laico sviluppatosi accanto a quello religioso. Ci si interesserà, invece, dell’impatto che la secolarizzazione ha provocato sulla religione più vicina, per diffusione, al mondo “occidentale”, vale a dire il cristianesimo, anche se un discorso non del tutto differente si potrebbe tentare, ad esempio, per l’Islam e per l’ebraismo, e su parte dell’intellighenzia occidentale.
La scomparsa della sfera e della valenza sociale di una dimensione sacrale e trascendente ha lasciato un enorme vuoto in mezzo a noi, un vuoto che la stessa società contemporanea è incapace di sopperire. E’ dunque singolare osservare come, nel momento in cui un importante centro di religiosità sembra venir meno o perde parte del suo carisma, si sviluppano, prima ai margini della società, per poi acquisire nel tempo un peso notevole, correnti all’apparenza opposte ma, di fatto, sorelle, definite prosaicamente come testa o croce ovvero volti di un’identica medaglia. Da una parte v’è una tendenza alla liberalizzazione e semplificazione della sfera religiosa o al suo completo rifiuto; dall’altra l’irrigidirsi su posizioni ritenute ortodosse, “integraliste”. Se la liberalizzazione della sfera del sacro consiste nell’adattare Dio a sé stessi, il suo completo rifiuto pare dettato da un certo razionalismo, razionalismo che più che di ragione e coscienza sembra nutrirsi di vocazione per la tecnica, se non del più freddo materialismo, e che finisce per elevare sé stesso a feticcio.
Altrettanto complessa è la questione del cosiddetto integralismo religioso, questione che non tocca solamente il mondo islamico, all’interno del quale è legato anche a precise dinamiche di carattere politico, ma lambisce frange dell’ebraismo e del cristianesimo, tanto protestante quanto cattolico. La difesa di tradizioni, segnatamente in ambito liturgico, ha finito più volte per sfociare in una vera e propria “riduzione” del messaggio cristiano ad una questione pro forma, se non addirittura in una fusione ambigua ed avvilente con correnti “identitarie” di matrice nazionalreligiosa. È questo un atteggiamento del tutto secolare, se vogliamo “millenaristico” nel senso che, ad esempio, Oakeshott attribuì al termine.
Di fatti, accanto se non come prodotto della stessa eclissi del sacro, assistiamo ad una generale eclissi valoriale, ad una crisi d’identità dell’uomo: ne sono sintomi la mancanza di un “centro” nelle nostre vite, di un punto cardine, di una dimensione ulteriore rispetto a quella terrena e materiale, così come il venir meno, forse necessario al divenire storico, di una serie di istituzioni, la crisi di sistemi politici ed ideologici consolidati, la mancanza di una produzione culturale che ci restituisca la certezza d’essere uomini e non cifre da valutare, buone a consumare, spendere e spegnersi. In risposta al “vuoto” è ormai presenza costante la ricerca di identità, di una tradizione… Di un sistema che offra quelle sicurezza e continuità che il presente non può, mentre non ci si accorge che la religione, qualunque essa sia, ridotta ad una questione puramente identitaria perde di significato, si secolarizza.
Ecco dunque un Giano bifronte, falsamente ortodosso e genuinamente secolare; ecco il prendere corpo di un millenarismo dalle sembianze ingannevoli ma privo di sostanza, né mistico né teologico, semplicemente ed integralmente mondano.
Infine, ad impreziosire la fronte di questa piccola divinità di cartapesta, spicca una corona colta, quella del cosiddetto ateismo devoto. È questo un termine ambiguo, e nel presente testo ci si riferirà alla sua accezione più “politica”. Quello degli “atei devoti” è un fenomeno tutto occidentale, figlio come gli altri di un vuoto di religione e di pensiero. Si tratta della posizione di coloro che, soprattutto in ambito cattolico, pur affondando le loro salde radici nel razionalismo progressista, appoggiano la Chiesa quale portatrice di una visione ordinata della società, di una tradizione, di una diga culturale nei confronti dell’invasione islamica o dello stesso progressismo più estremista. Questo significa aver ridotto realmente la Chiesa esclusivamente ad un soggetto meramente politico, aspetto che naturalmente, nella sua complexio oppositorum, non le è affatto estraneo, ma soprattutto aver piegato la religiosità all’interno di una dialettica che non le è conforme. Si tratta, insomma, di una strumentalizzazione della religione, di un forzato piegarla agli interessi della contingenza, di una sua riduzione a forza meramente secolare. Questo schema di pensiero si spiega alla luce di due fatti: innanzi tutto in forza di quello stesso “vuoto” che spinge alla ricerca di una forza la quale dia energia, spessore culturale ed un alone di gloria; in secondo luogo, come ben spiega Carl Schmitt in suo saggio, datato al 1923 ma di bruciante attualità, Cattolicesimo Romano e Forma Politica, dal fatto che il suo punto d’origine è in effetti una frattura realmente esistente, una scissione e un sistema di antitesi che hanno bisogno di una sintesi, ovvero una polarità che ha un “punto di indifferenza”, una situazione di problematica lacerazione e di profondissima indecisione a cui non è possibile altro sviluppo che il negarsi e, negandosi, pervenire ad una posizione . Insomma, un pensiero nato da una scissione radicale (per Schmitt, “rivoluzionaria”) quale quello moderno, e polarizzato tra due estremi, richiede, all’interno di alcune sue consapevoli correnti di pensiero, la necessità di negare sé stesso e approdare ad una posizione certa e sicura quale quella offerta dalla teologia cattolica, piegandola nello stesso tempo all’interno del proprio sistema concettuale.
Dunque cade ogni tentativo di asservire la religione, mentre appare evidente come questi stessi tentativi, benché in maniera forse inconsapevole, siano nutriti dello stesso secolarismo alla cui fonte si abbevera l’epoca contemporanea.

Niccolò Nobile

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