Cultura. Viaggio nella “Casa della vita” di un sublime antimoderno: Mario Praz

L’opera di Mario Praz, professore, scrittore, elzevirista, è folta e prismatica. Praz si affermò anzitutto come anglista e storico della letteratura inglese; ben presto, però, prese ad occuparsi di altre letterature e soprattutto di arte, tanto da qualificarsi come raffinato e insigne comparatista. In possesso di una preparazione straordinariamente vasta e profonda, le sue indagini spaziarono dal Mario_Prazcampo letterario alla morale, dalle arti figurative alla ritrattistica, alla musica, al teatro, alla filosofia dell’arredamento, dalle arti maggiori alle arti minore. Dopo essersi laureato a Roma in giurisprudenza nel 1918 e a Firenze in lettere nel ’20 con una tesi sulla lingua di Gabriele D’Annunzio, ottenne una borsa di studio per recarsi al British Museum a completare uno studio su alcuni poeti inglesi del Seicento. In Inghilterra fece più volte ritorno: inizialmente perché dovette prendere, volontariamente, la strada dell’esilio in quanto ostracizzato dagli antifascisti crociani; nel dopoguerra subirà l’ostracismo dei comunisti, un tempo crociani. In Italia ritornò definitivamente nel 1934 e si stabilì a Roma dove ottenne da Giovanni Gentile la cattedra di letteratura inglese, che dopo il suo pensionamento fu ereditata da Elémire Zolla. I suoi saggi, gli elzeviri, gli articoli di giornale pubblicati su svariate riviste, tra queste L’Italiano di Longanesi, Il Tempo di Roma e Il Giornale (la sua firma comparve un paio di volte anche sul Il Borghese di Mario Tedeschi), concorrono alla realizzazione di un arazzo, di un grande affresco di un’intera civiltà.

C’è, inoltre, in lui una precisa vocazione di saggista e di scrittore, in cui però traspare, anche nelle pagine più erudite, una certa componente autobiografica; un giudizio morale, sovente di biasimo nei confronti dell’imbarbarimento dei costumi nel vivere moderno. Suo maestro spirituale sarà del resto lo scrittore inglese Charles Lamb, ormai obliato sotto la coltre del modernismo, nel quale Praz si imbatté quando Giovanni Papini gli ebbe a commissionare la traduzione dei Saggi di Elia, opera principe del Lamb. Un classico dell’umorismo, conservatore e disimpegnato, che a malincuore avrà ad annotare Praz “nessuno dei giovani d’oggi si sentirà invogliato a leggere”; il Lamb ricorderà del resto la fine delle guerre napoleoniche soltanto perché Hyde Park fu profanato dalle baracche in occasione delle feste per la pace tra Inghilterra e Francia.

Praz è oppresso e segnato dalle immani trasformazioni che hanno reso la nostra età l’epoca più rivoluzionaria della storia del mondo e ravvisa tutto ciò – secondo il latinista Ettore Paratore – anche “nel senso di disorientamento e di sprofondamento insito entro le esperienze spirituali e artistiche” su cui guarda caso egli si è soffermato maggiormente. Il mondo moderno con le sue idee democratiche e le “macchine da abitare” è il suo principale bersaglio. Lo spirito del nostro tempo è per Praz già evidente nella propensione dei moderni a cercare i loro classici nei primi fumetti e nelle prime fotografie, espressioni tra le più “congeniali all’esistenzialismo, all’intensità istantanea e fuggitiva” della società contemporanea. L’uomo contemporaneo è appagato dall’effimero; “i romantici” invece “veneravano Dante, Shakespeare e Michelangelo, che insegnavano loro il sublime e i neoclassici Omero, la scultura antica e Raffaello, che li educavano alla possente calma e alla nobile semplicità”.

Questo senso di decadenza intrinseco alla civiltà moderna traspare a suo giudizio anche dalle costruzioni più recenti; dal loro essere prive di legame con una benché minima tradizione. Oggi – scrive Praz – non si “costruisce più con l’illusione d’una durata secolare”. Emblema di tale scadimento è l’America con i suoi grattacieli. Tutto ciò che era avvenuto nel Vecchio Mondo pare a Praz circonfuso di poesia; al di là dell’Atlantico, gli sembra piuttosto di trovarsi nel “clima disincantato dell’Ultimo Viaggio”: il “Ciclope” non è che un “cratere di vulcano” e le “Sirene null’altro che pericolosi scogli”. “Un grattacielo non può esserti vicino come un antico palazzo. Le sue proporzioni abnormi sono illusorie, e non comunicano alcun senso di sublimità”. I famosi grattacieli di Manhattan, visti attraverso la lente di Jonathan Swift, gli sembrano nient’altro che una collezione di flaconi e di bottiglie o, tutt’al più, un’agglomerazione di cristalli. “Un grattacielo ti fa pensare, tra le prime cose se non per prima cosa, a come sicura sarebbe la morte buttandosi dalle sue finestre”.

A Praz, d’altra parte, non sfugge la tendenza tipica dei moderni di circoscrivere l’attenzione alla mera dimensione dell’individuo, alla sua breve avventura terrena, a far del singolo individuo una unità di misura, cosicché ogni forma di guerra è vista con pregiudizio nelle coordinate di un “calvario senza aureola, un’agonia di animali in agguato”, e il mondo appare “governato da un caso sciocco o maligno”. Il tutto nell’opera di Praz è ben inscritto e amalgamato in un racconto, la cui caratteristica non è la severità, bensì la conversazione, a cui si aggiunga il raffinato collezionismo. La vita dello scrittore ha del resto come centro di equilibrio la contemplazione dell’arte quale fenomeno del gusto. “La sua vera estetica – scrive Geno Pampaloni – è il suo gusto. Il suo rovistare sapiente tra biblioteche, salotti, quadrerie, carteggi, musei, più che dell’enciclopedico ha del sensuale”.

Il Praz non è un mero accumulatore di oggetti: ai mobili egli si rivolge come se fossero presenze vive che scandiscono la nostra esistenza; la casa e il suo arredamento divengono proiezione diretta dell’io, in pieno stile dannunziano. Per Praz lo stile è l’uomo, la casa è l’uomo. L’ambiente diviene qualcosa di più d’un mero specchio dell’anima; è anzi un “potenziamento dell’anima”, un museo dell’anima, un archivio delle sue esperienze; essa vi ripercorre la propria storia, è costantemente consapevole di sé; l’ambiente è la sua “cassa armonica dove, e costì soltanto, le sue corde rendono la loro autentica vibrazione; tutto l’ambiente finisce col diventare un calco dell’anima, l’involucro senza il quale l’anima si sentirebbe come una chiocciola priva della sua conchiglia”; così come “l’antichissima zampa di leone conserva ancora qualche vestigio del primitivo significato sacrale che era di trasfondere la sua virtù, la sua forza, nella persona che sedeva sulla seggiola così sostenuta”.

Storico del Decadentismo è tuttavia dotato di una natura antidecadente. Al Decadentismo e alla sua appendice, l’Art Nouveau, e al Neoclassicismo decorativo Praz oppone lo stile Primo Impero, con la sua funerea e austera tonalità in grado di preservare l’uomo dal mondo del subcosciente, dallo smarrimento fatiscente dei decadenti. Non gli sfuggiranno per altro gli accenni sadici propri di taluni ornamenti decorativi dello stile Secondo Impero – un “età non più eroica come quella napoleonica, ma democratica, borghese, ove nessuna mascherata di stile antico era possibile nella vita pratica” – e, ça va sans dire, della poetica del Decadentismo, a tal punto da ripiegare, da rivolgere il suo sguardo e il suo affetto, verso la nostalgia del familiare, del grigio crepuscolare, come nei quadri che rappresentano interni o gruppi di famiglia che appartengono alla sua collezione. La via di fuga è rappresentata dal pacato ritorno al gusto Biedermeier, considerato come compromesso e resa più consona dai fervori e dagli scompigli di cui sono foriere le altre due tendenze; oltre che dalle Sacre conversazioni in cui legge “una perfetta immagine del genio italiano e cattolico, fatto di serenità, di misura, e di umanità soprattutto”; come, d’altra parte, dall’architettura neoclassica russa, frutto del genio di maestranze italiane, che Praz rivive nella lettura delle Soirées de Saint-Péters-bourg di Joseph de Maistre, soprattutto nell’“incanto d’una sera estiva sulla Neva”.

A Praz si deve, infine, uno dei “romanzi” più entusiasmanti della nostra letteratura: Casa della vita, in cui, transitando da un ambiente all’altro della propria abitazione, egli ebbe a descrivere le varie collezioni raccolte con gran gusto nel tempo; con un intenso afflato lirico, di certo singolare nel contesto della produzione saggistica italiana, quantomeno novecentesca. Ovviamente il libro fu ignorato del tutto dalla critica militante; tra i pochi critici lucidi in grado di apprezzarne la vastità e il sostrato delle fonti vi furono Pietro Citati e il sommo Piero Buscaroli, che con Praz ebbe una lunga amicizia e stabilì un rapporto maestro-discepolo. Buscaroli rileverà dietro l’opera una folta schiera di nobili autori, tra questi primeggiavano Walter Pater, Charles Lamb, Baudelaire, Swinburne, Barbey d’Aurevilly e D’Annunzio, e avrà a definirla come la più grande opera letteraria del Novecento italiano, dopo il romanzo “epico-contadino” di Ardengo Soffici, Lemmonio Boreo, in virtù del fatto che “completava la rottura e rifusione dei vecchi generi che la letteratura tedesca aveva raggiunto” fin dai Buddenbrook di Thomas Mann. Un capolavoro che, rigettato dai reazionari irrisolti, Togliatti e Vittorini, i quali gli preferiranno Il Gattopardo di Lampedusa, sarà – scrive Pietrangelo Buttafuoco in Buttanissima Sicilia – pienamente compreso e amato dai veri reazionari.

La sua casa è un dannunziano buen retiro, un luogo ove ritirarsi al fine di sottrarsi alle brutture della esistenza globalizzata. Così ricorderà Alfredo Cattabiani la sua visita alla “Casa della vita” di Mario Praz: “È una tiepida domenica, il celebre appartamento di Praz a palazzo Primoli è nella penombra del crepuscolo un’isola di civiltà dove si sentono presenze balsamiche per chi ogni giorno deve, per sopravvivere, subire la presenza del volgo.”.

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Giuseppe Balducci

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