Cavaliere del Cielo. Il mito in mostra di Francesco Baracca e l’orazione funebre di D’Annunzio

LOCANDINA-BARACCA-WEBMartedì 26 maggio, alle ore 12, nell’Aula Magna dell’Accademia di Belle Arti di Bologna, si terrà la conferenza stampa per presentare la mostra “Cavaliere del cielo. Il mito di Francesco Baracca nel monumento di Rambelli e nei media. Mostra commemorativa nel centenario della Prima Guerra Mondiale”, che sarà aperta dal 28 maggio al 27 giugno.
“L’esposizione, che ha avuto il patrocinio del Comune di Bologna, rientra nel progetto del Programma ufficiale delle commemorazioni del Centenario della prima Guerra mondiale a cura della Presidenza del Consiglio dei Ministri, fra gli eventi di interesse nazionale.
La mostra è organizzata dalla Accademia di Belle Arti – Dipartimento di Progettazione ed Arti Applicate e presenta un’ampia e inedita scelta di opere artistiche, disegni, volumi, fotografie, cartoline e varie tipologie di oggetti ispirate dalla figura di Francesco Baracca (1888 – 1918), asso del volo, uno dei massimi protagonisti dell’aviazione durante la Grande Guerra.”

Francesco Baracca, asso dell’aviazione militare, morì il 19 giugno 1918, negli ultimi giorni della Prima Guerra Mondiale, durante una missione. Il simbolo dell’aereo di Baracca era un cavallino rampante, ripreso anni dopo da Enzo Ferrari come simbolo delle sue macchine. Durante il funerale l’elogio funebre venne pronunciato da Gabriele D’Annunzio. Lo riportiamo integralmente.

Miei compagni! Aviatori! Alte parole furono dette. Il cordoglio ebbe la voce grave del Principe e dei nostri Capi. Ma, come avete udito dalla fierezza del primo cittadino di Lugo e appreso dal coraggioso lutto dei consanguinei, non vuol pianto né rimpianto questo celere uccisore e distruttore che fu tra i più maschi generati dalla matrice ferrigna dove si stampa il meglio della gente di Romagna. Non vuol essere piamente lacrimato ma vendicato potentemente. Per noi era tutto un’ala di guerra, cuore e motore, tendini e tiranti, ossa e centine, sangue ed essenza, animo e fuoco, tutto una volontà di battaglia, uomo e congegno. L’ala s’è rotta e arsa, il corpo s’è rotto e arso. Ma chi oggi è più alato di lui? Ditemelo. Chi oggi è più alato e più alto di lui? Ditemelo. Non era se non un punto nel cielo immenso, non era se non una vibrazione invisibile nell’azzurro infinito. Ed ora è per noi tutto il cielo, è per noi tutto l’azzurro. Il suo spirito è un demone di vittoria. S’è sprigionato dalla carne e dal legno, dalla tela e dalla pelle, dallo scheletro e dall’acciaio. La sua volontà di vincere, che era d’uomo contro uomo, per infondersi in tutti gli uomini combattenti della sua razza, ha preso a propagatrice la morte. Cosí, incorporeo, nell’ora santa in cui le sorti erano per volgersi, egli volò su la fronte di tutte le nostre armate, traversò l’intera battaglia, profondo come il brivido e splendido come la folgore. Aveva vinto trentaquattro avversari; ed ecco vinceva gli eserciti! La sua gloria non era più un numero; era un’ala innumerevole e unanime sopra l’Italia trionfante. E c’è chi si rammarica che a lui, prima di cadere, sia mancata la gioia della grande novella? Era egli stesso il messaggero della novella, ai vivi e ai morti. La sua bocca taceva piena di sangue nero, tra sassi e sterpi? Ma il suo grido slargava la bocca di tutti i combattenti. In ciascuno di noi egli ha combattuto con tutte le sue forze moltiplicate di là dell’umano. Per mirar giusto, abbiamo avuto il suo occhio infallibile nel nostro occhio, il suo pugno fermo nel nostro pugno. L’altra sera, la sera del solstizio che è per noi italiani una sorta di festa solare e segna questa volta il culmine della luce di Roma, quando ci fu annunziata la trasfigurazione e l’ascensione di Francesco Baracca il Vittorioso, là, in un campo litoraneo, mentre i nostri uomini caricavano di bombe i nostri apparecchi, io dissi ai miei compagni che bene gli antichi nostri celebravano i funerali degli eroi con giochi funebri. E, per celebrare l’eroe nostro col solo rito degno di lui, io li condussi a un funebre giuoco di guerra. Ritornammo e partimmo di nuovo, e ancora ritornammo e ripartimmo, finché la notte non fu consunta. Egli era in noi, egli combatteva in noi, egli perseverava in noi, su quel fiume di nostra vita, lampeggiante come una riviera celeste.

Oggi, domani, sempre, com’è con noi, sarà in noi, combatterà in noi, in noi resisterà, come dice la nostra preghiera, “non fino all’ultima goccia del nostro sangue, ma fino all’ultimo granello della nostra cenere”.

O compagni, oggi per lui la nostra anima è colma di bellezza come il nostro cielo è pieno di presagi. Perché da una fredda spoglia chiusa fra quattro tavole d’abete, piú stretta che fra gli ordegni della fusoliera, sorge una potenza di creazione che supera ogni verbo? Nessun cantico di grazie, nessuna ode trionfale, nessuna musica solenne eguaglia in sublimità tanto silenzio.

Di morte in morte, di mèta in mèta, di vittoria in vittoria “. Cosí comincia il suo inno senza lira, così principia il salmo di questo re. Dinanzi a questo re immortale, per rispondere alla sua umana e sovrumana speranza, noi vogliamo salutare, sia noto o sia ignoto, il giovine successore della sua regalità”.

26 giugno 1918

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