25 aprile. Lo storico Oliva: “Il passato che non passa, Resistenza, Rsi e fine del Duce”

In occasione della giornata del 25 aprile, abbiamo intervistato lo storico torinese Gianni Oliva, che ha appena pubblicato il libro “Il tesoro dei vinti. Il mistero dell’oro di Dongo” (Rizzoli). La “memoria” del 1943-‘45, che continuiamo a dichiarare il periodo fondante della nostra democrazia repubblicana, appare sempre più debole e sfumata. È il destino che accomuna tutti i simboli identitari legati all’auto-rappresentazione di una generazione: quando un avvenimento viene interpretato non in ragione della sua reale incidenza sulla storia ma della sua funzionalità a una lettura rassicurante del passato, si indebolisce a mano a mano che vengono meno le ragioni di quella rilettura, Di questo ne è pienamente convinto Oliva, uomo di sinistra (“noi ci differenziamo dalla destra nel modo con cui guardiamo al futuro”), già assessore regionale alla Cultura in Piemonte nel governo di Mercedes Bresso, oggi più che mai tacciato di revisionismo.

“Ma la storia è revisione per eccellenza. Non può essere diversamente. La ricerca storica procede per sua natura attraverso ‘revisioni’ critiche, semplicemente perché non ammette verità precostituite e non discutibili, ma il revisionismo in quanto tale non dovrebbe essere né una categoria né un metodo storiografico. Nel caso di specie, peraltro, è semmai chi dopo la guerra ha letto le vicende di quegli anni in modo ideologico a non aver compiuto una reale analisi dei fatti”, irrompe Oliva.

Da tempo sostiene una tesi tanto più vera quanto più destinata a far discutere.

“Dopo l’8 settembre del 1943 la Resistenza fu una scelta compiuta da pochi, così come da pochi fu compiuta quella di arruolarsi nelle milizie della Repubblica Sociale. La maggioranza degli italiani rimase estranea a entrambe le scelte e decise, dopo anni di guerre e dopo aver subito l’abbandono da parte dello Stato, di non schierarsi e di combattere la propria personale battaglia per salvare la vita”

Resta il nodo della separazione fra dibattito politico e ricerca storica. E per questo professore, lei riceve molte critiche.

“La Resistenza non fu quindi un fatto di popolo, ma di minoranza. La guerra non l’hanno vinta i partigiani, ma dal punto di vista militare tutto venne deciso sulla Linea Gotica dagli angloamericani” non esita ad affermare Oliva.

Che cosa pensa di Piazzale Loreto?

“È un fatto che si può spiegare ma non giustificare e legittimare. Non lo si può capire con i criteri della normalità, perché altrimenti mai ci si sognerebbe di portare dei bambini a vedere un simile scempio. Ricordo che mia mamma, classe 1920 e laureata in letteratura straniera, andò a vedere a Torino il 29 aprile l’impiccagione dell’ultimo federale Giuseppe Solaro. Fu una scena atroce, tremenda, belluina: Solaro fu impiccato una prima volta ad un albero, ma il ramo si spezzò e lui, ormai in stato di semi-incoscienza, venne impiccato per una seconda volta. Il cadavere fu poi portato in processione per le vie ed infine gettato nel fiume Po dal Ponte Isabella. Vedete, da episodi simili si può benissimo sostenere che la morte purtroppo non ha lo stesso valore, ad esempio oggi a Roma è diversa da Baghdad oppure da Tripoli. Rendo l’idea? Il 25 aprile iniziò una feroce resa dei conti, che non può essere giustificata col dire che il fascismo fu un regime totalitario”.

Che fine avrebbe dovuto essere riservata a Mussolini?

“Sarebbe stato più elegante e giusto un processo, ma l’Italia del 1945 non era in grado di decidere da sola il proprio futuro e allora cercò di salvare la faccia con l’esecuzione del capo del fascismo a Giulino di Mezzegra”.

Chi uccise realmente il Duce?

“Walter Audisio e Aldo Lampredi, il vero dirigente. La morte fu decisa dalla sinistra del Cln, da Luigi Longo e da Sandro Pertini”.

Che fine ha fatto l’oro della colonna fascista di Dongo?

“Si trattava di un tesoro fatto da gioielli, rottami d’oro e valuta per un valore di otto miliardi di lire, secondo altro di un solo miliardo. Comunque era una somma molto alta. Finì nelle mani del Partito comunista italiano e parte venne preso da persone private in quei momenti concitati. Pensate che recentemente ho presentato il libro a Como e proprio a Dongo e ho ricevuto telefonate di persone preoccupate che nel libro avessi scritto i nomi di coloro che avevano preso il tesoro”.

Quel che più conta per Oliva è dimostrare come, dal punto di vista storico, non sia esistita “un’Italia buona che riscattò l’Italia cattiva, semplicemente perché i fatti storici non sono mai classificabili in questo modo. Tutto questo, ben inteso, non autorizza alcuna conclusione di stampo revisionista o relativista sul piano politico, che però è piano del tutto differente e distinto. Anzi è proprio la ricerca della verità storica che impone, ancora oggi, di accettare un unico dato di fatto: a prescindere da qualsiasi giudizio etico, sul piano meramente oggettivo, i valori che animarono la Resistenza sono conformi a quelli poi espressi dalla nostra Costituzione repubblicana, rispetto ai quali, al contrario, i valori espressi dal fascismo si pongono come antitetici. Su questo, politicamente, non c’è discussione. Tutto il resto – dalle motivazioni individuali che spinsero i singoli ad aderire a una o all’altra parte o a non schierarsi affatto, dagli atti di eroismo ai crimini, dai tradimenti alle viltà – appartiene al mondo dei fatti e della storia e, se calato nel dibattito politico, ha solo effetti fuorvianti”.

Come giudica quei giovani che decisero di indossare la divisa grigioverde della Repubblica Sociale?

“Li assolvo sul piano individuale, ma non su quello storico. Quasi tutti avevano dalla loro parte l’ardore della gioventù e dell’avventura, quasi tutti agirono in buona fede dal loro punto di vista”.

Ci sono ancora troppo coni d’ombra che non permettono di fare piena luce su fatti drammatici, come il pozzo di Fubine, il paese natale di Longo in provincia di Alessandria, dove vennero scaraventati numerosi fascisti, molti dei quali ancora vivi dopo essere stati selvaggiamente picchiati con le vanghe…

“Tutto ciò è male. Il mondo resistenziale continua a farsi male con le proprie mani”.

Quale è pertanto il suo giudizio sul 25 aprile?

“Bisogna ricollocare i fatti di quegli anni nella loro corretta dimensione storica, e non politica. Cioò consentirà un salto di qualità nel modo con cui gli stessi valori fondativi della nostra Repubblica possono essere compresi e vissuti: non più solo in quanto valori ‘antifascisti’, bensì in quanto principi e diritti ‘universali’, consacrati nel corso del ‘900 da tutte le fonti del diritto internazionale, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948. Considerarli solo come valori ‘antifascisti’ significa, in definitiva, sminuirli. Il ‘passato che non passa’ – spesso evocato nelle polemiche storico-politiche degli ultimi anni – altro non è che la storia taciuta, quella attorno alla quale non si sono poste vere domande, ma si sono confezionate comode risposte”.

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Mario Bocchio

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