Reportage. Il “sentiero di Nietzsche” a Eze: sulle tracce della solitudine di Zarathustra

nietzsche«Tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è curva». L’eterno ritorno serpeggia anche in un sentiero tutto curve e pietrisco, vegetazione mediterranea e vette iperboree dello spirito. Zarathustra è stato qui, a passeggiare e delirare l’infinito sotto spoglie finite – troppo finite – di un distruttore che seppe distruggere se stesso inerpicandosi, solo, verso le vette del pensiero.

Eze è una perla incastonata in un diadema d’imitazione, un rifugio nella costa azzurra delle paillettes monegasche, dello sfavillare di Cannes, del minestrone dal retrogusto italico di Nizza. Nel parcheggio del Village l’unico manifesto è del Front National e racconta di un “espérance bleu Marine”, due bar offrono caffè, bibite e gelati, per mangiare una crepes bisogna salire al ristorantino Le Cactus. L’aria profuma non solo per i negozietti di lavanda e le bancherelle di sapone. E’ la Provenza che alita da Nord su questi sassi strappati al tempo. Nel villaggio sciamano torme di turisti col naso all’insù e le scarpe da trekking, cellulari ben in vista a selfare sorrisi ipocriti o spensierati, calpestando ciottoli di ripide salite che s’improvvisano scale sussurrando tempi lontani, fissi, semplici. Nella chiesetta di Notre-Dame de l’Assomption San Michele fa la guardia alla Vergine e tutti i santi e i diavoli si svegliano, intorpiditi, per un telefono che suona, blasfemo. L’altare barocco stona con la nobile semplicità della natura che avvolge Eze. Ma le tracce del profeta sono più in là.

Una targa di legno annuncia, sobria, l’inizio dello “chemin Frederic Nietzsche”. Il sentiero non promette, non ci sono attrattive, c’è solo il brivido di sfiorare passi che il filosofo percorse, di tanto in tanto, spesso in compagnia, per non cedere alle trappole della miopia. Da queste parti, tra Nizza ed Eze, concepì la terza parte dello Zarathustra, nel 1883. Un’ora scarsa di cammino per arrivare a Eze sur mer, in mezzo al nulla. La vegetazione è fitta, stretta. Olivi, lentischi, qualche quercia. I fiori sono pochi, la pendenza forte. Ogni passo dev’esser misurato sul selciato in cui il terriccio si dà il cambio con scalini di pietra che, man mano che si scende, diventano pietrisco disordinato, brullo. Pochi metri e già il verde si apre al blu in cui cielo e mare si confondono appena, tagliati dalla linea di un orizzonte di calma, cullato dalle colline. E’ l’unico slargo che concede una sosta in quell’aggrovigliarsi di curve, di discese e salite faticose. Arriva un bivio: a sinistra si può scendere per arrivare a un parcheggio che s’intravede in basso. Scorciatoia per chi s’accontenta. E’ l’ultima chiamata: chi non può e non vuole andare avanti può fermarsi qui. Una mandria di ignari turisti americani pascola berciando risate grasse e svolta, rompendo il silenzio che già tentava di diventare sacro, tornando alla modernità che sembrava perdersi nella macchia. Continuando a scendere i suoni si fanno rari, qualche spuntone di roccia è l’unico appiglio per fermarsi. Le ipocrisie evaporano, le convenzioni non servono, le costrizioni s’allentano. S’intravede persino qualche “odorosa” ginestra, “contenta dei deserti” e chissà se il caso ha voluto che lui, dalla Germania, incontrasse proprio qui non solo Leopardi ma la consapevolezza “dell’aspra sorte e del depresso loco che natura ci diè”.

Un pezzo di quell’immensità di sacrificio e pensiero è ancora qui, a trovare rifugio dalle contraddizioni del genio in questo verde. Veder arrancare quel corpo chiudendo gli occhi, con quella postura dignitosa ma incerta sorretta da un bastone o dall’immancabile ombrello grigio, per quelle curve di solitudine immensa. Ascoltare la profondità di un destino che si compie, che si può assecondare scegliendo di divenire ciò che si è. Ecco l’uomo. Si può aprire quel libro e leggere: «Chi sa respirare l’aria dei miei scritti sa che è un’aria delle cime, un’aria forte. Bisogna esser nati per respirare quell’aria, altrimenti si corre il rischio, non piccolo, di raffreddarsi, lassù. Il ghiaccio è vicino, la solitudine immensa – ma che pace illumina le cose! Come si respira liberamente! Quanta parte di mondo sentiamo sotto di noi! -. La filosofia, così come l’ho intesa io e vissuta fino a oggi, è vita volontaria tra i ghiacci e le alture – ricerca di tutto ciò che l’esistenza ha di estraneo e problematico, di tutto ciò che finora era proscritto dalla morale».

Il sentiero prosegue, il sole picchia e le ginocchia tremano per lo sforzo di saltare sulle pietre. Non c’è fretta ma solo la terrificante solitudine di un maestro che ha rinunciato alla vita per diventarne cantore. A un tratto le curve diventano meno frequenti, il terreno si macchia d’asfalto, iniziano ad arrivare i primi rumori. Poche svolte e s’intravedono gargantuesche ville di chi crede di comprare lo stile, la stazione poco più a destra, la fermata dell’autobus 83 che riporta a Eze Village. La rassicurante delusione di tornare a scandire il tempo con gli orologi della modernità. Si ritorna – si deve ritornare – a una fredda linea retta, illudendosi di andare avanti. Ma potendosi cullare nelle curve di una verità che ci accompagna, come viandante solitario, verso l’eternità di uno spirito che ritorna, per sempre, alla vita.

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Mario De Fazio

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