L’analisi. Papa Francesco piace all’opinione pubblica. Sarà rivoluzionario non progressista

papa francescoPiace a tutti. Papa Francesco sembra essersi conquistato la simpatia dei tanti, anche dei non credenti. Sono bastate solo due uscite in talare bianca per aggraziarsi l’opinione pubblica. Quella argentina, ovviamente. Ma anche quella italiana, che ha saputo vedere in lui un compatriota alla stessa stregua di un Angelo Roncalli e di un Albino Luciani. Un accostamento favorito dalle origini piemontesi e da quel curriculum da immigrato che lo rende assai solidale alle sofferenze di quei tanti italiani costretti a riparare all’estero per sfuggire alla fame.

Ma è il richiamo al santo patrono d’Italia a dettare la linea. Un nome tutt’altro che neutrale. Riconnettersi alla vicenda del “poverello” di Assisi vale come un programma di governo rivoluzionario. Una sorta di risposta ecclesiale al M5S. Una scelta di sicuro impatto mediatico. Un richiamo che rappresenta una responsabilità umilmente ambiziosa, se può valere l’ossimoro proposto. San Francesco, in un momento di crisi assai più travagliato di quello attuale, seppe sostenere la Chiesa dal di dentro, per mezzo di una regola ispirata, sine glossa alcuna, al Vangelo. Una dedizione così radicale a Gesù e alla sua croce, da culminare nelle dolorosissime piaghe delle stigmate. Infondo, chi vuol vedere nell’autore del Cantico delle creature un sorta di hippy ante litteram, rischia di non cogliere affatto la portata del suo messaggio straordinario. Un san Francesco ripulito dalla mistica della croce, non avrebbe giovato a nessuno, neanche all’attuale Pontefice romano.

Stiano attendi dunque coloro che credono, anche ingenuamente, che i non pochi problemi della Chiesa cattolica romana siano risolvibili attraverso una rinnovata popolarità mediatica o con una proposta assai melliflua dell’esperienza papale, fatta di grandi aperture, gesti eloquenti, ma poco fedele ai dettami della Rivelazione cristiana. La vicenda ecclesiale vive la sua autenticità nella sofferenza, nell’ostilità del mondo, e non nell’assecondare qualsiasi desiderata. Questo vale come criterio per comprendere il valore soprannaturale di un missione, quella di tutti i Papi della Storia, che è tutt’altro che filantropica.

Arriverà il tempo degli insegnamenti e delle parole stringenti. Come è giusto che sia. Per ora però Papa Francesco ha parlato attraverso semplici gesti. Sopra i quali, già da subito, si stanno affaticando gli esperti per capirne la portata. Il primo è la scelta di essere benedetto dal popolo romano prima di benedirlo con il tradizionale Urbi et Orbii. Un fatto assai rivoluzionario. Paragonabile ad una investitura dal basso. Una richiesta che relativizza, in un certo modo, il voto dei fratelli cardinali. Un atto politico, dunque. Papa Francesco è come se si fosse eretto a difensore degli “ultimi”, a fronte dei vizi una Curia romana colpevole di gestire la barca della Chiesa in funzione di sé stessa e non del gregge affidato. Degna di attenzione è pure la sottolineatura della missione del vescovo di Roma e il silenzio sul titolo di Papa. Una scelta tutt’altro che dettata dall’emozione. Francesco ha voluto riconnettersi, sì, alla Grande tradizione del primo millennio. Ma c’è di più. Il neo Papa ha voluto richiamare implicitamente il Concilio Vaticano II e il suo programma, mai del tutto attuato, di gestione collegiale dell’intera cattolicità. Qualora riuscisse in questa rivisitazione del papato, Francesco metterebbe in opera una rivoluzione copernicana della bimillenaria storia ecclesiale. Insomma, è pure normale che un Papa proveniente da una diocesi posta nell’estrema periferia della cristianità, “alla fine del mondo”, abbia questa pretesa. Bisognerà capire però se, stando ora Francesco al centro “dell’impero”, questa prospettiva non subirà emendamenti.

Fernando M. Adonia

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