Barbadillo/2milioni. Un magazine digitale che seduce anche chi ha amato la carta

imageCari amici di Barbadillo,

domenica scorsa il vostro gran capo mi ha telefonato per chiedermi un articolo e per dirmi che la nostra rivista aveva raggiunto i due milioni di lettori. Lì per lì, ho gongolato, pensando a tirature da “New York Times”. Poi mi sono ricordato che “Barbadillo” è una rivista informatica e che lettori è sinonimo di “contatti”. Ma anche ristrutturato così il dato è lusinghiero: 3000 persone al giorno che entrano in un sito non pubblicizzato, non sponsorizzato da partiti, sindacati, fondazioni tanto ricche quanto taccagne sono tante, in un’epoca di semianalfabetismo di massa. Credo sia doveroso festeggiare.

A proposito di analfabetismo, debbo confessarvi di essere anch’io, per quanto riguarda l’editoria informatica, un semianalfabeta. Non tanto per riluttanza a comprendere: capisco benissimo che una rivista on line consente enormi economie, evita di passare sotto le forche caudine della distribuzione, arriva in tempo reale nelle case, anzi, tramite i cellulari, direttamente nelle tasche dei lettori o nelle borsette delle lettrici. Ma non è facile cambiare per chi è nato e cresciuto nell’età del piombo. L’età in cui i refusi giustificavano ancora questo nome, perché la svista del tipografo (o dell’autore) imponeva la ricomposizione di un’intera riga, esistevano ancora i correttori di bozze (a Charlie Hebdo, ho scoperto, c’erano ancora, ma l’ortografia francese è più ostica della nostra), i titoli si componevano a mano e al bancone della tipografia del “Tempo” – come ci raccontava il figlio Giovanni, quando ci lamentavamo di dover scorciare i nostri pezzi per “Intervento” – l’ex storico ufficiale del fascismo Gioacchino Volpe tagliava insieme all’impaginatore le righe di troppo per far entrare i suoi articoli nel menabò.

Arrivare alla dignità della pagina stampata era il sogno di qualsiasi adolescente con ambizioni politiche, intellettuali, letterarie. Dopo la gavetta su ciclostilati di carta grezza, dai caratteri bavosi per l’inchiostro fuoruscito dalla matrice, veniva il momento del primo articolo a stampa, almeno per i più fortunati. La cui reazione, anche se era passato più di un secolo, non era molto diversa da quella del Lucien de Rubempré di Balzac, del Bel Ami di Maupassant o del giovane autore che secondo Baudelaire è orgoglioso di correggere le sue prime bozze come lo studentello lo è di essersi procurato il suo primo scolo.

Le parole, sulla carta stampata, avevano non solo un valore, ma un odore, che poteva essere quello greve di piombo delle tipografie o quello acidulo dei patinati opuscoli a colori del Msi di cui aveva l’esclusiva la Saipem Cassino-Roma di Ciarrapico. Inconfondibile, come l’odore (quasi il tanfo) oleoso delle prime fotocopie o della carta da fax.

Per cinque anni, dal 1980 al 1985, ho curato il settimanale che l’Associazione Industriali della provincia di Firenze si poteva permettere all’epoca di pubblicare per inviarlo ai soci. Quattro pagine a grande formato, tutte composte a piombo, nonostante facesse il suo esordio la fotocomposizione. Vi scrivevano fra gli altri un futuro ministro della Cultura e vicepresidente del Senato (Fisichella), che poi da buon siciliano s’adontò e lasciò la collaborazione, Giano Accame, che inviava ogni settimana due articoli sotto due diversi pseudonimi, Franco Cardini e Stano Scorza. Scorza era il fratello dell’ultimo segretario del Pnf. Il vecchio direttore dell’Associazione, Guido Postiglione, già prigioniero non cooperatore in India, l’aveva voluto collaboratore a vita del settimanale per rispetto alla memoria del fratello, così come aveva introdotto Accame. Stano inviava per ogni numero un prolisso e involuto pastone di politica interna, che toccava a me “passare”. Il guaio è che scriveva i suoi articoli a spazio 1, come molti vecchi giornalisti (Almirante incluso) che avevano una sorta di superstizioso rispetto per la carta e non era facile rendere comprensibili le correzioni ai linotipisti, che aggiungevano naturalmente errore su errore, a parte quello, prevedibile, di aggiungere al suo nome una erre.

A parare ai refusi ci pensava Giulio Baldi, il correttore di bozze. Di famiglia modesta, aveva studiato da prete fino a prendere il diploma di licenza ginnasiale. Conosceva il latino meglio di un accademico, perché da seminarista era obbligato a parlare in latino con i colleghi. Era entrato nella Rsi, ma come funzionario del ministero dell’Agricoltura, ed era stato epurato. Una sera gli chiesi il perché della sua scelta. Mi rispose che aveva creduto nelle armi segrete di Hitler. In cuor mio gli detti di bischero, ma dopo aver letto le rivelazioni di Romersa in materia mi sono dovuto ricredere. Non sapeva scrivere, ma sapeva giudicare benissimo gli scritti degli altri. Aveva collaborato, sempre come correttore di bozze, con le edizioni dell’Arco, che raccoglievano i transfughi di “Italia e Civiltà”, aveva conosciuto Soffici, Papini, Sigfrido Bartolini, Barna Occhini. Proprio di Occhini citava sempre un’espressione che non ho mai dimenticato. L’animatore di tante riviste, dal “Frontespizio” a “Totalità”, non diceva mai di un articolo “è scritto male”, ma “è pensato male”. Il resto veniva di conseguenza.

Cari amici di Barbadillo, non so se anche questo mio articolo è pensato male. Vi aspettavate un elogio delle magnifiche sorti e progressive di una rivista web, vi è capitato un ricordo dei beati anni del piombo. Che poi tanto beati non erano. Ai banconi della Tipografia Giuntina, dove veniva stampata “Industria Toscana”, si poteva trovare il marchese Roberto Ridolfi che correggeva le bozze della “Bibliofilia”, ma si poteva anche trovare il saturnismo, malattia professionale dei tipografi, a partire dal grande Bodoni.  E comunque un piacere tattile e olfattivo, come quello di sporcarsi le dita col piombo al bancone di una tipografia, non basta a compensare gli enormi vantaggi che un giornale on line assicura: l’opportunità di rivolgersi a un pubblico potenzialmente illimitato, di interagire con i lettori, pur con gli inconvenienti che questo può comportare, l’immediatezza del rapporto, e, paradossalmente, la possibilità di essere citati, magari in libri a stampa, più facilmente che con un articolo o un saggio di difficile reperibilità: anche i ricercatori tendono a documentarsi prima sul web che in libreria.

Per questo, cari amici di Barbadillo, non posso che rivolgervi un augurio sincero. E scusatemi se non collaboro più spesso con voi, un po’ per pigrizia, un po’ per pudore di sessantenne in un foglio di giovani, dove il mio unico coetaneo è il titolo, un po’ per civetteria di ultimo figlio della Galassia Gutenberg a disagio nelle nuova costellazione del Web. Non tutti hanno la ventura, come Jünger, di vedere due volte la cometa.

@barbadilloit

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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