Ci siamo! Ora dovranno lasciare finalmente in pace il cadavere di Pasolini! Basta e ancora basta alla riapertura delle indagini sul delitto dell’Idroscalo. Il barile della sua morte è stato raschiato fin troppo. Adesso è davvero il momento di dire basta. Il cassetto dell’obitorio che idealmente ne custodisce ancora i poveri resti rimanga per sempre chiuso. Lo dicono dal Palazzo. Di Giustizia. Chi ne ha voglia, legga semmai i suoi versi, i suoi romanzi, i suoi saggi, veda i suoi film, quanto al resto non parlateci più del suo cadavere sfigurato, lì sullo sterrato dell’Idroscalo di Ostia nel giorno dei morti del 1975, quarant’anni fa: il poeta morto circondato dai poliziotti giunti lì, sguaiati, coatti, per i primi rilievi, la truce Marlboro in bocca, la mano sul “pacco”, come mostrano le foto di quel giorno all’alba tra le baracche e il campetto di calcio. La Procura chiede infatti l’archiviazione della nuova inchiesta affermando che le tracce di DNA non sono attribuibili. Era ora! Se ne facciano una ragione Walter Veltroni e tutti gli altri dolenti interessati che proprio sulla salma di PPP hanno cercato di mostrare le proprie edificanti ambizioni di carriera e di ulteriore promozione sociale, se non istituzionale. Così come se ne dovranno una ragione, sia pure dall’altro mondo, l’innocente Laura Betti e perfino Enzo Siciliano, il biografo, ossia chi su Pasolini ha costruito la propria carriera, magari all’ombra del Partito; oh, vedove inconsolabili di Pier Paolo.
L’ultima notizia, decisiva per mettere fine al fotoromanzo criminale pasoliniano degno del peggiore “Chi l’ha visto?”, rivela sugli abiti che Pier Paolo Pasolini indossava la notte dello scempio sono stati, sì, individuati almeno cinque codici genetici a cui però non è stato possibile dare un nome, un volto, una traccia nella direzione dei possibili mandanti, se mai ce ne furono. Poco importa se mazzieri neofascisti al soldo della criminalità di Stato, dunque dei suoi Servizi deviati, o piuttosto marchettari in trasferta da piazza dei Cinquecento, gentaglia comunque bene informata, consapevole della vocazione masochistica, se non autolesionistica, dell’omosessuale Pasolini. Si narra perfino che si facesse talvolta picchiare con il filo spinato, una verità che i moralisti hanno sempre taciuto, una realtà, la componente masochistica in Pasolini, che la comunità gay del tempo non ha mai taciuto, come narravano in molti in un volume pubblicato da Laterza pochi anni fa, un titolo esemplare: “Quando eravamo froci” di Andrea Pini.
Per questa semplice ragione la Procura di Roma ha chiesto di archiviare la nuova indagine avviata sui fatti di allora dopo la denuncia presentata da Guido Mazzon, cugino della vittima, nel 2010. Il procedimento, però, era sempre rimasto a carico di ignoti. Punto.