Cultura. Quando (anche) Pertini elogiava il fascista di sinistra Sironi

In età moderna, il percorso di assolutizzazione compiuto congiuntamente da stati e chiese ha avuto una tappa fondamentale nel controllo della memoria storica, sia propria sia del nemico politico o religioso. Ne è derivata una straordinaria opera di interdizione di conoscenza, o assoluta (libri da non far circolare in nessun modo; opere d’arte da abbattere) o selezionata (libri e opere d’arte da correggere, interpolare, “adeguare” all’insaputa dell’autore: ne sono esempio il “Decamerone” “rassettato” o i nudi michelangioleschi della Cappella Sistina scalpellati e “rivestiti”).

Questa specifica selezione della memoria che ha progressivamente sostituito l’interdizione rude, ha contraffatto il passato; ed è oggi pratica capillare, velenosamente sofisticata. Subìta, ad esempio, dalla prima edizione delle opere di Gramsci, da Pavese, da edizioni di carteggi di padri della patria (dalle lettere di Garibaldi all’epistolario tra Salvemini ed Ernesto Rossi) eccetera. Capita ancora di sentir parlare dello scrittore Ignazio Silone esclusivamente come perseguitato dal fascismo, mai dunque come informatore dell’Ovra (è accaduto nel recente Convegno “Oltre ‘Salerno’. Benedetto Croce, Ignazio Silone e la loro attualità politica”, tenutosi a fine settembre 2014 a Pescasseroli e Pescina. Dove politici di peso e intellettuali di prestigio, insieme, hanno perbenisticamente nascosto questa pur nota e clamorosa circostanza, dando quindi quel po’ di “riposo al vero” teorizzato nel 1641 da Torquato Accetto nel trattatello intitolato “Della dissimulazione onesta”).
Accade anche nella mostra “Mario Sironi. 1885-1961” (Roma, Complesso del Vittoriano, dal 4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015; catalogo a cura di Elena Pontiggia, edito da Skira). Mostra e catalogo, sia chiaro, di vertiginosa fascinazione, cui hanno collaborato alcuni dei maggiori studiosi dell’artista. Nell’esposizione, due lettere in particolare appaiono profilare un’emblematica parabola politico-esistenziale tra la disperazione della lealtà e la testimonianza farisaica del compunto omaggio, post res perditas, sulla pietra tombale dell’artista.

“In un mondo di canaglie e d’imbecilli, è cosa rara incontrare un Mario Sironi”; così gli scriveva il 21 settembre 1954 Curzio Malaparte, che chiudeva la lettera ricordando di essere riuscito “a rimaner buono in questi tempi di tradimenti, di viltà, e di carognaggine”. Poco più di vent’anni dopo (il 3 maggio del 1965), Sandro Pertini, allora vicepresidente della Camera, scriveva alla vedova di Sironi: “Per me è uno dei maggiori artisti della nostra epoca, e la sua arte vivrà”. Ma intanto Sironi era morto in un isolamento politico-culturale determinato da una faziosità irriducibile cui non era certo estranea la tradizione ideologica alla quale apparteneva Pertini.

Eppure la Pontiggia, forse la più autorevole studiosa di Mario Sironi, torna con coraggio a proporre una reintegrazione storico- politica dell’artista criticando i ricorrenti, liturgici tentativi di ridurne o marginalizzarne l’esplicita adesione al fascismo fin dal 1919. E offre un percorso integrale del maestro in cui si legge filologicamente la sua intera, straordinaria esperienza artistica, dal sodalizio futurista a Novecento, fino alla decomposizione del secondo Dopoguerra. Un’esperienza che vede Sironi a fianco di Umberto Boccioni e Gino Severini, di Giorgio De Chirico e Carlo Carrà, godere della stima e dell’appoggio di Margherita Sarfatti, inaugurare la grande stagione della pittura murale, rifiutando la “pittura da cavalletto” come concezione borghese, privatistica dell’arte, per giungere alla teorizzazione della sua funzione etico-sociale.

Da cui le grandi imprese decorative degli anni Trenta per edifici pubblici: “La Carta del lavoro”, “L’Italia corporativa”, “Venezia l’Italia e gli Studi”, “La Giustizia fiancheggiata dalla Legge”. Opere possenti, di tecniche compositive diverse (vetro, mosaico, affresco), che innervano il momento costruttivo, l’epos degli anni del consenso. E che oggi non possono non determinare problemi con i rigidi e arcigni guardiani del “politically correct”. Proprio filologicamente, documenti e pannelli esplicativi in mostra, coi loro silenzi e, peggio, con sintomatica, contorta allusività, cedono infatti all’obbligo del mascheramento al pubblico di quella passionalità politica di Sironi che lo condusse a un’adesione al fascismo non abiurata neanche nei mesi drammatici della Repubblica sociale.

Di questa adesione, ignorata nell’audio-video introduttivo della Mostra (audio-video che però fa cenno alle critiche a Sironi provenienti dal fascismo oltranzista di Farinacci), c’è appena traccia in un marginale pannello esplicativo che può giovarsi di un’adesione al fascismo da “sinistra” (ricorrente confluenza politica ricordata con coraggio non solo intellettuale da Renzo De Felice); una traiettoria quindi capace ideologicamente di agevolare poi l’assoluzione dal “peccato”, come puntualmente occorso a intellettuali – esemplificativamente, da Delio Cantimori a Ugo Spirito – che in altri campi subirono la stessa fascinazione ritraendosene post factum, o nelle sue prossimità.
Ma, nella mostra in corso al Vittoriano, la non marginalità del pannello introduttivo della sezione dedicata agli “Anni Quaranta e Cinquanta” evidentemente obbliga a una prudente perifrasi: per non parlare della disperata amarezza di Sironi per il crollo del fascismo (e sì che è noto che il 25 aprile ’45, a Milano, Sironi era stato messo al muro da un gruppo di partigiani, tra i quali apparve provvidenzialmente Gianni Rodari a salvarlo dalla fucilazione immediata), vi si legge “di disperata amarezza per il crollo delle sue illusioni civili e politiche”.
Ancora, allusiva per iniziati e criptica solo per chi non sa, la scheda che accompagna l’esposizione di un cartone preparatorio raffigurante “L’astronomia”, particolare (poi ripensato) dell’affresco eseguito da Sironi nel 1935 nell’aula magna dell’Università di Roma, e “particolare fortunatamente sfuggito al deturpante restauro” subìto da quell’affresco nei primi anni Cinquanta (citiamo dal catalogo). Di quel non altrimenti spiegato “deturpante restauro” si trova, poco oltre, testimonianza clamorosamente involontaria, in pratica un vero e proprio lapsus: la fotografia di quel grande affresco che appare nel catino absidale dell’aula magna dell’Università di Roma, “L’Italia fra le arti e le scienze”. 1935.
Ma la riproduzione esposta e così datata (presente anche nel catalogo), non è quella del 1935, ma quella soggetta appunto “al deturpante restauro” dei primi anni Cinquanta. Triste vicenda nota agli addetti ai lavori (in particolare grazie agli studi della storica dell’arte Simonetta Lux), ma qui taciuta al grande pubblico dei visitatori. Eccola, in breve. Marcello Piacentini, direttore generale dei lavori del consorzio per l’edificazione della nuova (e attuale) sede dell’Università di Roma, che doveva render conto personalmente a Mussolini dell’andamento dei lavori, aveva anche la responsabilità delle decorazioni artistiche degli interni.

Sironi, con cui il sodalizio di lavoro era già consolidato, il 3 settembre del 1935 aveva firmato il cosiddetto “atto di sottomissione”, cioè l’impegno “a sottoporre i bozzetti ed i cartoni in grandezza naturale all’approvazione di S.E. Marcello Piacentini (…) e ad apportare ad essi tutte le modifiche e varianti, anche sostanziali, che dal Direttore saranno richieste”. Con ritmi forsennati di lavoro, Sironi giunse a completare l’opera (“raffigurante simbolicamente la scienza italiana”) appena in tempo per l’inaugurazione della Città universitaria, il 31 ottobre 1935, alla presenza del duce.
L’affresco originario non è dunque quello che si vede oggi. Caduto il fascismo, finita la guerra, Sironi – il cui nome venne vergognosamente abraso da volumi, repertori, manuali di critica e d’arte del Dopoguerra – dovette subire anche la censura di quell’affresco. Una commissione, nominata dal rettore Giuseppe Caronia nel 1947, “per procedere a degna sostituzione dell’affresco” (commissione di cui, incredibilmente, faceva parte Marcello Piacentini, restituito alla democrazia grazie forse alla massoneria, certo ad Andreotti), provvedeva a dare indicazioni censorie a Carlo Siviero per cancellare, senza consenso dell’autore, cavalieri, aquile, monti a forma di fascio.
Per recidere, quindi, il nervo politico che aveva ispirato quel capolavoro, ridurne plasticamente l’impressionante portata evocativa, col risultato di alterarne, fino a negarla, l’autenticità. Interventi censori si sono parimenti e puntualmente abbattuti su altre decorazioni di Sironi (a Milano, Venezia…). Censurata anche, ma con avvertenza del curatore, Ettore Camesasca, l’edizione milanese del 1980 degli “Scritti editi e inediti” di Sironi, laddove contenevano lodi a personaggi del passato regime (compreso Piacentini). Il 15 luglio 2014 il Consiglio d’amministrazione dell’Università di Roma ha approvato la convenzione con l’Istituto centrale del restauro per il restauro dell’affresco “L’Italia fra le arti e le scienze”.
Non sono ancora noti i dettagli tecnici, ma la domanda che attende risposta è: restaurare, ove e se possibile, l’originale “fascista” o quello democraticamente censurato? In quest’ultimo caso si restaurerebbe quello che è stato considerato il “deturpante restauro”? Vero è che, accanto a questa definizione della Pontiggia, non sono mancati interventi di segno diverso che, anche di recente, hanno definito “giusto” l’intervento censorio dei primi anni Cinquanta (secondo, dunque, apprezzamento metodologico per quelli compiuti da Daniele Ricciarelli da Volterra, detto perciò il Braghettone, sui nudi michelangioleschi della Cappella Sistina?).
Andò dunque meglio a Duilio Cambellotti che nel 1933, decorata a tempera con inequivocabile simbologia fascista la sede della nuova prefettura di Ragusa, vide poi censoriamente imbiancata tutta l’opera. La quale, con ciò, fu virtualmente inserita nella I classe delle proibizioni degli Indici (quella delle condanne irremissibili, senza condizioni né compromessi che consentissero “rassettature”, correzioni censorie e devote manomissioni plastiche); ma che proprio per ciò, una quarantina d’anni dopo, poté essere “restaurata”, ovvero riportata alla sua integralità e autenticità artistica.
Una piccola storia istruttiva, che richiamò il talento letterario di Leonardo Sciascia (e, più di recente, di Pietrangelo Buttafuoco e Vittorio Sgarbi). Attenzione: senza storicizzare un regime, un qualsiasi regime politico cronologicamente precedente e anche ideologicamente avverso a quello che lo segue, si rischia di legittimare l’abrasione radicale di ogni simbologia che possa ricordarlo. Il radicalismo ideologico e sanguinario degli anni rivoluzionari in Francia (che pure ha decollato statue e simboli di monarchi e santi) non ha avuto espressione artistica? Allora le opere del convenzionale, robespierrista e poi napoleonico Jacques-Louis David, che gridavano continue vendette di segno politico-ideologico progressivamente diverso, avrebbero dovuto subire interventi plastici di “adeguamento”, se non pure una materiale distruzione censoria.
A consequenziale rigor di logica, c’è rischio di giungere a legittimare le distruzioni operate nel corso della rivoluzione culturale maoista e, oggi, quelle di vestigia religioso- civili, come è avvenuto a Bamiyan, in Afghanistan, con l’abbattimento a cannonate talebane delle colossali statue di Buddha scolpite nella roccia nel III e V secolo d. C.; o quelle attualmente in corso in Iraq, Siria, Libia, dove altre frange del radicalismo islamico vengono distruggendo straordinari tesori artistici di varie tradizioni religiose precedenti o comunque diverse da quella musulmana. Problemi non ne mancano; mancano soluzioni agevoli e discussioni “laiche”, cioè non dogmatiche. Contentiamoci, frattanto, che a Roma non sia stato abbattuto il Colosseo

*da il Foglio

Paolo Simoncelli*

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