Max Weber ci ha insegnato che esiste una tensione continua e irrisolvibile tra càrisma e istituzione. I carismatici possono ben fondare delle istituzioni: ma, di solito, non vogliono o non sanno guidarle. Questa norma weberiana ha guidato in qualche modo,avant la lettre, lo stesso Francesco all’indomani della redazione di quella Regula bullatache in più parti correggeva e modificava la volontà e le intenzioni alla luce della e delle quali era stata redatta la precedente, appunto e non a caso non bullata. Interpretare i motivi per i quali Francesco si tira da parte e lascia ad altri il governo della fraternitas ormai divenuta ordo è difficile: e le generazioni intere di studiosi che si sono affaticate attorno a questo problema, le biblioteche intere di studi che gli sono stati dedicati, non hanno se non complicato le cose. Del resto, la funzione degli studi storico-esegetici è proprio questa: sviluppare, articolare, problematizzare. Comprender qualcosa significa proprio questo: non già escogitar soluzioni che abbiano l’aria di esser definitive, bensì intraprendere al via di un approfondimento che per sua natura è infinito. Ma il dato in sé rimane. E ci si può anche domandare se la risposta a quella scelta – la “conseguenza” di essa, il “premio” per essa – non siano state, appunto, le stimmate.
Ma papa Francesco non è frate Francesco. Il papa è il capo di un’istituzione e non può ritirarsi da essa, salvo il seguir l’esempio di Benedetto XVI. Nel suo discorso sull’aereo che lo riportava da Seul a Roma, il 19 agosto 2014, Bergoglio ha accennato anche a questo: può ben accadere che un papa si ritiri. Fino al febbraio 2013, v’era al riguardo solo il controverso episodio di Celestino V; ora ve n’è un altro, ben più costitutivamente e – appunto – istituzionalmente fondante. Però, finché un papa resta tale, egli è il capo di un’istituzione e ha il dovere di guidarla.
Ebbene: in che modo una personalità carismatica può servire da ispirazione per chi sia chiamato a guidare un’istituzione? Per chi, come l’autore di queste righe, si occupi di storia, la risposta (o per lo meno una risposta) va cercata nel processo storico: che è fatto di continuità e di rotture.
Francesco d’Assisi viveva in una Cristianità. Vale a dire in un mondo crudele, barbaro, durissimo: nel quale però tutti gli aspetti della vita personale e comunitaria di chiunque ne fosse parte erano dominati dalla fede e dalla dottrina cristiane. Erano cristiane non solo la fede, la teologia e la filosofia, ma anche la politica, l’economia, la scienza, le arti, l’estetica. All’interno di un mondo così ordinato – e non certo perciò stesso perfetto: al contrario, un mondo di peccatori – Francesco poté esprimere la sua proposta cristiana di piena adesione al Cristo povero e nudo, senza pretendere che essa divenisse l’unica norma possibile, che essa passasse – appunto – dal càrisma all’istituzione divenendo la sola misura nella Chiesa, l’unico modo di vivere all’interno di essa. Nella casa di Dio vi sono molte dimore, com’è stato detto.
Il punto è che oggi non è più così. Quel che definiamo ordinariamente il “processo di secolarizzazione”, dal quale è scaturita la Modernità, consente ai singoli di definirsi cristiani e anche di vivere in conformità con la loro scelta, ma li obbliga a vivere e ad assumersi responsabilità civili, giuridiche e sociali in un mondo che non è più informato dalla fede e dalla dottrina cristiana. Una società odierna può ben essere costituita da una maggioranza e se vogliamo addirittura da una totalità di cristiani, ma non è più una Cristianità.
Ciò impone alla Chiesa anzitutto la presa di coscienza di questo stesso fatto, la piena consapevolezza riguardo ad esso. I cristiani che, in quanto tali, debbono costituire un modello per una maggioranza che non è più tale, o non lo è mai stata. I cristiani che, per rispondere davvero ai loro còmpiti odierni, debbono essere – com’erano quelli prima dell’editto di Teodosio che fece di quella dell’apostolo Pietro l’unica religio licitadell’impero – “il sale della terra”. Una terra piena di crimini e di orrori ma, anzitutto e soprattutto, dominata dall’ingiustizia e dall’indifferenza. Una terra guidata dall’arbitrio individualistico – l’Io al posto di Dio – e dall’Avere al posto dell’Essere.
Ed ecco il nemico personale di Francesco: quello di cui egli si spogliò coram patre in piena Assisi, quel giorno lontano. Nella Cristianità, nonostante le colpe e i difetti degli uomini, era ancora possibile per un cristiano scegliere diversamente da lui. Molti lo fecero e poterono addirittura santificarsi pur continuando a gestire la ricchezza: e fra Tre e Quattrocento furono addirittura i minoriti osservanti come Bernardino da Siena a porre le fondamenta di un “capitalismo cristiano”.
Ma fuori della Cristianità, all’indomani del suo lento e fino a oggi irreversibile spegnersi fra Quattro e Settecento, il mostro si è liberato dalle catene che lo trattenevano. L’auri sacra fames è divenuta la signora di un mondo che ha smarrito i suoi orizzonti trascendenti. In un mondo così, l’unica via possibile per il cristiano è quella di frate Francesco, nudus Christum nudum sequi.
Ma papa Francesco sa che, se ciò può essere per la Chiesa una mèta perseguibile sul piano della strategia, per giungere a ciò occorre una tattica adeguata: una tattica di riconquista al Cristianesimo degli stessi cristiani. Per questo sono necessarie entrambe le misure ch’egli usa adottare: la rassicurante e sorridente quotidianità (in fondo, il Bene è facile; la complicazione attiene al male) e la doccia scozzese delle scelte forti, volte a rinnovare e a risanare la Chiesa. Gradualità nella tattica, fermezza nella strategia. Ma ciò, si obietterà, configura una consapevolezza “apocalittica”, la coscienza di vivere i Tempi Ultimi.
Questo è il punto. E’ proprio così. E’ sempre stato così. L’Apocalisse è il Libro della Rivelazione: non è un racconto di fantascienza. Ciascuno di noi è chiamato all’esperienza degli Eschata: ogni giorno e giorno per giorno. Questo è il senso dell’insegnamento del maestro: ricordate? “Non passerà questa generazione…”. Arrivano nella storia momenti nei quali questa consapevolezza dev’essere particolarmente vigile. Il tempo che viviamo è uno di essi.