Storia in Rete. Anni’60, quando l’Europa “studiava” la Repubblica sociale

manifesto-nuova-europa-lavoratoriAlla fine degli anni Sessanta, un volume curato dall’allora Commissione economica europea, scritto in francese e dedicato alla cogestione e alla partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende nei paesi membri del Mercato comune, dedica un capitolo “all’esperienza mussoliniana”. E, come se nulla fosse, sottolinea che l’esperienza della RSI in materia ha influenzato la legislazione dell’Italia post 1945. Ovviamente di quel libro non si è più parlato…

C’è una storia in sordina che la casualità d’una sorpresa bibliografica obbliga a ripercorrere, a riconsiderare, a vedere proiettata oltre il confine rigido del già giudicato, del politically correct; confine, per giunta, già scavalcato nel pieno delle convulsioni parigine del sessantotto di Sartre e Cohn Bendit; scavalcamento invero azzardato su cui, quindi, scese un comprensibile oscuramento. Parliamo della vicenda delle “socializzazioni” del fascismo repubblicano; anzi della sua imprevedibile, appunto sorprendente longevità. Che a correre nella “rossa Salò”, fossero stati antichi repubblicani e socialisti, sindacalisti e comunisti, da Bombacci a Rocca a Silvestri…, è noto. Altrettanto noto l’impegno profuso subito, fin dal Manifesto di Verona (14 novembre ’43), atto di nascita del fascismo repubblicano, per l’esaltazione del “lavoro manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione” come “base della Repubblica sociale”. Un tentativo dunque di recupero delle antiche origini movimentiste e sindacaliste, una “Canossa di sinistra”, e sia, ma giunta sino a lambire ufficialmente e si direbbe positivamente la Comunità europea? Vediamo.

La “Premessa fondamentale per la nuova struttura dell’economia italiana”, approvata dal Consiglio dei ministri del 13 gennaio ’44, che Mussolini considerava “come sua opera personale”, non era stata un proclama privo di seguito. L’ambasciatore tedesco Rahn, allarmato, il 10 febbraio seguente aveva avuto dei colloqui col ministro per l’Economia corporativa, Angelo Tarchi, che non aveva deflettuto minimamente davanti alle pressioni di Rahn che voleva in anticipo il testo del decreto attuativo di quella “Premessa”, nei cui confronti minacciava proteste e ostacoli attuativi, dato che quel genere di legislazione avrebbe potuto ledere “gli interessi tedeschi nell’industria bellica italiana”. Era dovuto intervenire Mussolini a chiarire all’ambasciatore tedesco che la legge sarebbe stata invece “approvata e divulgata immediatamente”; “Voi sapete quanto me – disse Mussolini – che molti dirigenti dell’industria italiana attendono a braccia aperte gli anglo-sassoni e sono responsabili in gran parte dell’8 settembre […]. Essi desiderano una cosa sola: la vittoria degli anglo-sassoni, cioè la vittoria della plutocrazia alleata al bolscevismo”. Rahn quello stesso giorno avrebbe inoltre anticipato a Berlino l’intenzione del Duce di nazionalizzare l’energica elettrica, e testimoniato delle vive preoccupazioni degli ambienti militari tedeschi per questo nuovo indirizzo di politica sociale; né sarebbero mancati i timori del rappresentante commerciale svizzero presso il governo di Salò.

Secondo Mussolini questo nuovo sistema avrebbe presentato “il vantaggio di risvegliare nel lavoratore italiano un senso di partecipazione agli interessi della sua impresa. Sinora ciò non era stato possibile per colpa dei grossi industriali italiani”. Parole analoghe avrebbe avuto Claretta scrivendo a Ben dell’ostilità degli industriali a quella “tua legge meravigliosa, saggia, innovatrice” contraria al “loro egoistico interesse di capitalisti”. Il 12 febbraio ’44 il decreto legislativo n° 375 sulla socializzazione delle imprese, ne disciplinava in dettaglio la gestione: “socializzate” quelle che al 1° gennaio precedente avessero avuto un milione di capitale o più di cento lavoratori, analogamente tutte quelle di Stato, provincie e comuni, o di interesse pubblico; controlli e ispezioni pubbliche sulle altre. Per la gestione delle imprese soggette alla “socializzazione”, sarebbe stata costituita un’assemblea composta paritariamente da rappresentanti del capitale e del lavoro; questa assemblea avrebbe nominato un consiglio di gestione, un collegio sindacale ed il “capimpresa” (rimovibile “quando la sua attività non corrisponda […] alle direttive della politica sociale e dello Stato”). La vicenda, gestita amministrativamente da Tarchi e, con più dinamismo e vigore, dal nuovo ministro del Lavoro, Giuseppe Spinelli, in collaborazione col suo sottosegretario Ugo Manunta, avrebbe portato, ai primi di gennaio del ’45, alla “socializzazione” di diverse note imprese (Alfa Romeo, Ansaldo, Fiat, Mondadori, Montecatini, Olivetti…). Con un seguito prevedibilmente contrastato e contestato; in particolare dai tedeschi.

Che non fossero misure di banale propaganda fu chiaro subito dopo la guerra, quando un periodico politicamente insospettabile, “Realtà politica”, diretto da Ferruccio Parri e Riccardo Bauer, nel numero del 15 settembre ’45, pubblicò documenti e resoconti diplomatici di fonte saloina sui colloqui di Rahn con Mussolini e, a Berlino, di Ribbentrop con Anfuso, tutti del marzo ’45. Vi si potevano leggere espressioni preoccupate e a tratti minacciose delle autorità tedesche contro il procedere di queste “socializzazioni”, e contro la violazione del principio del partito unico, occorsa a Salò consentendo un secondo partito, il “Raggruppamento sociale nazionale” di Cione (sospettato addirittura di contatti a Londra con la II Internazionale!); inconcepibile, per giunta, che Cione fosse stato autorizzato a pubblicare un quotidiano, “L’Italia del Popolo”, dal titolo così platealmente inverso rispetto al “Popolo d’Italia”, da non poter evitare sospetti e retropensieri. Che su queste vicende (e non solo) la tensione tra i due alleati rimanesse viva è dimostrato da un ulteriore documento, redatto il 16 aprile ’45, su di un colloquio occorso due giorni prima tra il Duce e il comandante generale delle SS in Italia, Karl Wolff. A questi che ancora chiedeva se il Duce “fosse sempre del proposito di mettere in atto la legge sulla socializzazione. Il Duce – così nel resoconto – ha risposto che la legge sulla socializzazione dovrebbe essere applicata senza indugio il 21 aprile p.v. Wolff gli ha chiesto allora […] se il Duce non ritenesse, a scopo tattico, ritardare la attuazione del provvedimento. Il Duce ha risposto che ormai il provvedimento era atteso e che difficilmente si sarebbe potuto procrastinare. Wolff ha soggiunto che egli si rendeva conto di tale necessità ma che appunto per questo, ed in considerazione dell’atteggiamento soprattutto inglese, che è volto a serrare le fila della politica conservatrice in Europa contro i russi, sarebbe stato forse interessante ritardare l’applicazione della legge. Il Duce ha risposto che avrebbe riflettuto sulla cosa ma che comunque gli sembrava che fosse già trascorso molto tempo per fermare l’iniziativa praticamente già messa in atto”. Chiusa tragicamente, di lì a pochi giorni, la vita della Rsi, il visto decreto legislativo 12 febbraio ’44, n° 375, era stato posto nella marginale disponibilità di storici, da Giacomo Perticone, socialista, autore già nel ’47 di un primo saggio su La Repubblica di Salò, a Frederik Deakin che, nella Brutal Friendship. Mussolini, Hitler and the Fall of Italian Fascism (Londra, 1962), che ne avevano rilevato l’aspetto propagandistico, archiviandolo dunque con tutte le sue conseguenze teoriche e pratiche. Un sigillo storico-politico che avrebbe però subìto un’inopinata effrazione, quando, dove e da chi meno si sarebbe atteso.

Si tratta infatti di un’iniziativa europea, occorsa a Parigi nel dicembre ’68, nel pieno dunque delle convulsioni studentesche e operaie, con la pubblicazione, da parte della casa editrice Jupiter, di una raccolta di fonti giuridiche: Cogestion et Partecipation dans les Entreprises des pays du Marché Commun, curata da uno dei grandi nomi del diritto commerciale internazionale, William Garcin, originario delle Antille francesi, già funzionario dell’Unesco, fondatore nel 1957 della “Collezione del diritto commerciale dei paesi del Mercato Comune Europeo” diretta ad offrire a giuristi ed operatori economico-commerciali i testi comparati delle leggi vigenti nei vari Stati della nascente Europa unita. A questa “Collezione” si sarebbero aggiunti testi monografici ed un utilissimo bollettino, “Lois et affaires”, dove venivano puntualmente riportate le novità normative di ogni Stato della Comunità. Bene, il volume Cogestion et Partecipation, riporta così testi comparati di diritto costituzionale e del lavoro dei vari Stati della Comunità. Il capitolo IV, dedicato all’Italia, prende avvio dall’art. 46 della Costituzione, “la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei tempi stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”, considerato però lettera morta: gli accordi sindacali del 18 aprile 1966 (di cui è riportato il testo) non avevano però ancora prodotto una legge applicativa. Seguivano due pagine sul Cnel, quattro sul concetto di impresa nel Codice civile italiano, e poi “L’experience fasciste de cogestion et de partecipation”, dal Manifesto di Verona al decreto legislativo del 12 febbraio ’44 (riportato integralmente). Il giudizio conclusivo su quest’ultima attività legislativa “mussolinienne”, “relativement considérable”, veniva collegato all’obbligo indotto nell’Italia democratica “à formuler des positions sociales hardies dans sa Constitution et dans ses prémieres lois” («… a formulare nella sua Costituzione e nelle sue prime leggi posizioni sociali ardite…»). Seguivano altre positive considerazioni.

Il volume è apparso sotto gli auspici e con una breve Prefazione del primo presidente della Commissione economica europea, Walter Hallstein, e del commissario agli affari economici e monetari, Robert Marjolin; entrambi con un curriculum democratico ed europeista fuori discussione. Seguì il silenzio avvolgente, sprezzante, censorio di giuristi, storici, e politici. E sì che quell’edizione patrocinata a così alto livello dall’allora Commissione economica europea, che additava tra le fonti legislative italiane anche quella “mussolinienne” della Rsi, è posseduta d’ufficio (incautamente?) dalla Biblioteca del nostro Polo parlamentare.

*Dall’ultimo numero della rivista Storia in Rete (in tutte le edicole d’Italia e in rete www.storiainrete.com)

Paolo Simoncelli

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