Teatro. “Un nemico del popolo” di Ibsen con Tognazzi medico ibseniano

Foto di Gabriele Gelsi
Foto di Gabriele Gelsi

La immodificabilità  della natura umana e la illogicità delle leggi sociali tornano sulla scena in “Un nemico del popolo”, riadattamento del testo di Henrik Ibsen curato da Edoardo Erba per la regia di Armando Pugliese, in scena alla Sala Umberto dall’8 aprile. Il dottor Stockmann ibseniano è Gianmarco Tognazzi con lui Bruno Armando, fratello corrotto, sindaco della città. A fare da contorno ai due protagonisti interpreti brillanti come Alessandro Cremona, Stella Egitto, Antonio Milo, Simonetta Graziano, Renato Marchetti e Franz Santo Cantalupo.

Con “nemico del popolo” Ibsen dichiara la sua sfiducia definitiva nei riguardi della società, denunciandone le ambiguità, gli opportunismi, la solitudine nella quale ti condanna a vivere la “diversità”, che altro non è che onestà. Un dialogo adatto a tutti i periodi di crisi socio politica, perché è in questi momenti che si sonda la sostanza di una forma di governo e la essenza degli uomini. Erba pensa quindi alla Italia degli anni settanta e pensa ad una piccola comunità dove i legami familiari molto spesso si incrociano con i legami politici, in cui il controllo sociale dei “ristretti orizzonti” dovrebbe, ma non è, essere colmato dalla solidarietà. E invece un dottore rispettato per il suo lavoro, scoprendo un illecito compiuto a danno delle acque “salutari” delle terme cittadine, denunciandolo apertamente e un po’ ingenuamente si trasforma in un nemico di una intera comunità, perché con il suo gesto rompe un meccanismo diabolico e iniquo, cui tanti partecipano.

Il fratello dello sfortunato medico, Bruno Armando è la voce dei grandi capitali, quelli che controllano una nazione figuriamoci una piccola cittadina, quelli che non possono essere ridimensionati o colpiti, quelli che comprano la voce della informazione, severo giudice quando c’è da difendere la causa dell’interesse, meno oggettiva e coraggiosa quando deve raccontare semplicemente la verità. Nessuno è risparmiato in questa messa in scena del disastro sociale, primi fra tutti quelle categorie di imprenditori minori o quelle associazioni di cittadini, urlanti quando si tratta di rivendicare diritti, accondiscendenti se quei diritti sono calpestati senza contaminarli. Serrati i dialoghi, scarsi i cambi di scena e quasi simbolica la scena stessa, perché spazio si è preferito, giustamente, dare al dialogo, così significativo. Tognazzi si identifica magistralmente con la immagine del medico ibseniano, distante dalla politica e alieno a qualsiasi ideologia, talvolta quasi incapace a comprendere e ad agire nel senso del politicamente corretto, proprio perché è la purezza etica il suo sprone e nessun altro calcolo. La maggioranza con le sue ragioni “guidate” e mediate finirà per vincere contro di lui, non su di lui, che dopo la, per nulla velata, emarginazione cui è soggetto insieme alla sua famiglia, dopo aver perso la stima e l’affetto di tutti nonché il lavoro, decide di perseverare per garantire un futuro migliore a quei giovani ancora non complici di un sistema asfittico. Richiami ai giorni nostri ve ne sono in più di un momento e per un attimo a parlare durante l’assemblea pubblica è sembrato essere uno dei “populisti” del nostro tempo, dotato di una emotività estranea all’originale ibseniano. Ed è lui a chiudere l’opera con il viso rivolto al sole, convinto che la speranza non può spegnersi nell’uomo quando si rende conto che “”Il più forte uomo del mondo è colui ch’è più solo”.

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Marina Simeone

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