Eppure nel resto d’Europa e del mondo, soprattutto nell’area di lingua inglese, l’essere conservatore è stato ed è una cosa seria, da più di due secoli. Il conservatorismo non è soltanto uno stile di vita, un’attitudine caratteriale, una mentalità che spinge a rifiutare il cambiamento e il progresso a tutti i costi, ma è una vera e propria ideologia politica, una delle più importanti e longeve, insieme al liberalismo e al socialismo. Un’ideologia che ha accomunato alcune tra le figure di intellettuali più carismatiche della storia: da Burke, considerato il “Marx” del conservatorismo, a Bonald, da Maistre a Tocqueville, da Coleridge a Hegel, da Kirk a Spengler, da Voegelin a Savigny, da Eliot a Nisbet, da Oakeshott a Prezzolini. Tutti, a loro modo, sono stati conservatori devoti alla idealizzazione dell’ordine tradizionale e alla perenne custodia di valori eterni quali l’onore, la prudenza, la saggezza, la gentilezza, la fedeltà, il sangue, la gerarchia, la comunità, la nazione, usati come vere e proprie “armi” nella battaglia che, a vario modo, hanno combattuto contro sofisti, calcolatori, utopisti e razionalisti di tutte le epoche, soprattutto contro i “soldati del modernismo” alla Rousseau, Bentham, Adam Smith.
Ma in che cosa credono i conservatori? In pochi ma fermi ideali, diametralmente opposti a quelli del liberalismo e del socialismo: tradizione contro progresso; ordine contro anarchia; pensiero-azione contro contemplazione; autorità contro potere; qualità contro quantità; libertà contro uguaglianza; proprietà privata contro statalismo; religione contro moralità; comunità contro individuo. Sono questi i dogmi di una fede conservatrice che ha finito per attrarre statisti del calibro di Disraeli, Churchill, Bismarck, de Gaulle e, più recentemente, Thatcher e Reagan, uomini e donne di grande levatura politica, ricordati e celebrati in tutto il mondo, che non hanno avuto alcuna difficoltà ad autodefinirsi fieramente conservatori, e che hanno elaborato e attuato programmi politici di chiaro stampo conservatore. L’elezione di Reagan, in particolare, è coincisa, negli Stati Uniti, con la costruzione di una struttura conservatrice destinata a durare fino ad oggi grazie a fondamenta culturali solide e alle notevoli energie profuse da riviste a circolazione internazionale, centri di ricerca e istituti culturali per molto tempo ritenute accessibili soltanto ai liberali e marxisti. La “rete” di conservatori americani, a partire dagli anni ottanta, riuscì a elevare la parola conservatore a uno dei simboli più importanti nel dibattito politico del tempo, non solo nel mondo della politica pratica ma anche in quello universitario, dove andavano letteralmente a ruba i testi di Burke e Tocqueville e un nuovo movimento studentesco era in grado di tenere testa, negli atenei, agli esagitati della Nuova Sinistra.
Tale fervore culturale, a ben vedere, è l’esatto contrario di ciò che da sempre accade in Italia, dove a farla da padrone è sin qui stato il pensiero unico, con tutti i suoi pregiudizi e i suoi ostracismi nei confronti dei mondi “altri”, alternativi, non conformisti. Da questa ostilità, mista a scarsa conoscenza di un fenomeno culturale rimasto del tutto inesplorato nel nostro Paese, deriva la preconcetta posizione dei nemici del conservatorismo alla Monti, alla cui agenda, peraltro, tutta tecnica, calcolo e freddezza, un po’ di conservatorismo in più forse non guasterebbe. Il vero conservatore, infatti, per dirla con Prezzolini, non è né un reazionario né un nostalgico, ma colui che vuole “continuare mantenendo”, che a problemi nuovi dà risposte nuove, ispirate a principii permanenti, che è “rinnovatore delle leggi eterne dimenticate stupidamente, nascoste ipocritamente, trascurate impotentemente, violate quotidianamente” e che è persuaso di essere, “se non l’uomo di domani, certamente l’uomo del dopodomani, che sarà riconosciuto quando i suoi avversari democratici avranno fatto fallimento”.
*Spartaco Pupo insegna Storia delle dottrine politiche all’Università della Calabria ed è consigliere comunale a Rende (Cosenza). Ha svolto ricerche sul pensiero rivoluzionario e controrivoluzionario del Settecento meridionale. Ha introdotto al pubblico italiano il pensiero del realista Samuel Alexander. Da qualche anno si occupa di comunitarismo e conservatorismo. È “Senior Fellow” presso l’Istituto di Politica, centro di analisi e ricerca con sedi a Roma e Perugia e membro del comitato di direzione della Rivista di Politica. Tra i suoi libri: Le ragioni culturali della Rivoluzione del 1799 in Calabria (Cosenza, 1999), Samuel Alexander: naturalismo e democrazia delle cose (Cosenza, 2003), La comunità e i suoi nemici (Firenze, 2008), La politica senza Noi (Roma, 2011). Recentemente ha pubblicato Robert Nisbet e il conservatorismo sociale, Mimesis (2012) e Il pensiero riformatore calabrese (Rubbettino, 2012).