Il saggio. Tutela del paesaggio: da Croce a Bottai alla costituzione italiana

l'allegoria del buono e del cattivo governoChiunque abbia visitato nel palazzo ducale di Siena il ciclo di affreschi  noto con il nome “L’allegoria del buono e cattivo governo”, dipinti fra il 1337 ed il 1339 da Ambrogio Lorenzetti, avrà potuto constatare e quasi toccare con mano due diversi modi di governare il territorio e le relative conseguenze. Nel primo sono evidenti i risultati dell’operosità umana, della virtù civile e soprattutto della buona amministrazione che creano un bel paesaggio ed uno spazio fertile e ben ordinato. Nel secondo invece balzano agli occhi tra le macerie e l’abbandono delle campagne i segni dell’avidità, il prevalere degli egoismi e la mala  amministrazione.

E subito il pensiero corre all’Italia di oggi, alle brutte orripilanti periferie, alle speculazioni edilizie, alle campagne abbandonate e ridotte spesso a discariche abusive, a quel saccheggio del territorio iniziato negli anni ’50 e proseguito ininterrottamente fino ad oggi, che costituisce una vera e propria emergenza nazionale. Un saccheggio inutilmente denunciato da scrittori ed artisti come Giovanni Guareschi nei suoi racconti umoristici velati d’amarezza o come Pier Paolo Pasolini nei suoi scritti lucidi e disperati sulla scomparsa delle lucciole e sulla mutazione antropologica del popolo italiano.

Ma che cosa si intende quando si parla di paesaggio? Il paesaggio è un punto di equilibrio tra uomo e natura, è la natura modificata dall’uomo nel corso della storia. E’ uno spazio delimitato dallo sguardo e dalla volontà dell’uomo, sottratto alla totalità della natura, ma comunicante con essa. Come scrive Georg Simmel nel suo saggio Filosofia del paesaggio,  il paesaggio è “una visione in sé compiuta, sentita come unità autosufficiente, ma intrecciata tuttavia con qualcosa di infinitamente più esteso, fluttuante” (1).

L‘Italia è un paese straordinariamente ricco di opere d’arte e di una storia che ha lasciato profondi segni nel paesaggio. Prendiamo gli  ulivi, “i fratelli olivi che fan di santità pallidi i clivi e sorridenti” (2): non soltanto caratterizzano il paesaggio mediterraneo dalla Puglia all’Umbria, ma rappresentano anche un pezzo di storia e l’identità d’un popolo. La conservazione del paesaggio e dei beni artistici e culturali, insieme alla nostra lingua, costituiscono di fatto l’italianità, ne assicurano la continuità nella storia. Difendere un paesaggio significa difendere una parte della propria vita, la geografia esistenziale di ciascuno di noi. Di qui la sua rilevanza non solo estetica e culturale, ma anche giuridica e politica.

La prima legge di tutela del paesaggio fu emanata nel 1922 e porta il nome del filosofo Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti. Nella sua relazione presentata nel 1920 Croce invocava “un argine alle devastazioni contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo», in quanto la necessità di «difendere e mettere in valore le maggiori bellezze d’Italia, naturali e artistiche» rispondeva ad «alte ragioni morali e non meno importanti ragioni di pubblica economia”. Il paesaggio, suggeriva il filosofo, “altro non è che la rappresentazione materiale e visibile della patria, coi suoi caratteri fisici particolari (…), formati e pervenuti a noi attraverso la lenta successione dei secoli”. E’ da rilevare che questa legge si inseriva in una lunga tradizione di attenzione al patrimonio storico culturale che si era concretizzata in sia pur frammentari interventi legislativi negli Stati preunitari, in particolare negli Stati Pontifici e nel Regno di Napoli. Così, ad esempio, già sotto il re Carlo VII di Borbone nel 1755, mentre da poco era stata scoperta Pompei e fervevano gli scavi, erano  stati emanati vari bandi a tutela del patrimonio storico-artistico e i decreti borbonici del 1841-1843  “vietavano di alzare fabbriche che togliessero amenità o veduta lungo Mergellina, Posillipo e Capodimonte.”

Sulla legge Croce si fondò la legge Bottai del 1939 a protezione delle bellezze naturali, di poco successiva e, non a caso, alla legge per la tutela del patrimonio culturale. La legge Bottai fissava due strumenti per la tutela del paesaggio: l’identificazione delle aree protette “a causa del loro notevole interesse pubblico” e la redazione a cura del Ministero di “piani territoriali paesistici”, da depositarsi nei singoli Comuni. Queste leggi di epoca fascista furono giudicate all’avanguardia da insigni giuristi e furono tenute presenti anche dai costituenti.

Con la Costituzione del 1948, infatti, il principio della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico acquistava dignità di principio fondamentale dello Stato. Scrive a questo proposito Salvatore Settis, docente di storia dell’arte e dell’archeologia e direttore della Scuola Normale di Pisa, “la legislazione sulla tutela raggiunse in Italia il suo punto più alto con la legge 1089 del 1939, proposta dall’allora ministro Bottai, e rimasta fino ad oggi punto centrale di riferimento, anzi considerata la legge di tutela più organica e avanzata del mondo. Fu una legge approvata dal governo fascista, eppure quando la Repubblica nata dalle ceneri della guerra e dalla Resistenza volle darsi una nuova costituzione, i valori di quella legge furono puntualmente riaffermati dai Costituenti, nell’art. 9 della Costituzione repubblicana…” (3)

L’art. 9 della Costituzione Italiana, che al secondo comma stabilisce che la Repubblica“tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione” è, dunque, il punto d’arrivo d’una lunga storia. Non ha mancato di rilevarlo in modo incisivo ed autorevole l’ex Presidente della Repubblica Ciampi, il quale, parlando il 5 maggio 2003 ai benemeriti della cultura, ha dichiarato: “L’Italia che è dentro ciascuno di noi è espressa dalla cultura umanistica, dall’arte figurativa, dalla musica, dall’architettura, dalla poesia e dalla letteratura di un unico popolo. L’identità nazionale degli italiani si basa sulla consapevolezza di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che non ha eguali al mondo. Forse l’articolo più originale della nostra Costituzione repubblicana è proprio quell’articolo 9 che, infatti, trova poche analogie nelle costituzioni di tutto il mondo”.

Sennonché, nel dopo guerra in seguito all’incremento demografico e al forte sviluppo delle aree urbane l’urbanistica finì per assorbire i “piani territoriali e paesistici” che la legge Bottai riservava alla tutela dello Stato. L’istituzione delle Regioni nel 1972 attribuì poi ad esse  il governo del  territorio, la redazione dei piani paesistici e la protezione dell’ambiente, lasciando allo Stato generiche funzioni di indirizzo e coordinamento. Inoltre la parola “paesaggio” fu rimossa e sostituita con “ambiente” o “beni ambientali”, senza precisare che cosa li distinguesse dal “paesaggio” e finendo, quindi, come nota Salvatore Settis, per “provocare una strisciante annessione del paesaggio all’urbanistica, ambito controllato da istanze locali e meno soggetto ai principi della tutela” (4)

A questo proposito va rilevato che lo spostamento della tutela del paesaggio alla competenza delle Regioni è in stridente contrasto con l’art. 9 della Costituzione, che affida alla Repubblica la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione. L’istituzione poi del Ministero per l’Ambiente nel 1985 ha scisso le due nozioni giuridiche, che invece coincidevano quando  nel 1975 venne istituito il Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. “È in questo quadro – chiosa Salvatore Settis – che si innestò la legge Galasso del 1985, che impose alle Regioni sia l’immediata redazione (spesso disattesa) di piani paesistici o urbanistico-territoriali, sia un controllo sulla gestione delle aree vincolate, affidato ai poteri sostitutivi del Ministero (mai messi in atto). Di fatto, le Regioni hanno sub-delegato ai Comuni le competenze paesaggistiche, cancellando ogni unitarietà nella tutela del paesaggio” (5).

La nuova formulazione dell’art 117 che seguì alla pessima riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001 voluta dal centro-sinistra ha assegnato  alle Regioni il governo del territorio e “la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali” riservando allo Stato la potestà esclusiva di legislazione su “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”. In questo modo  non solo è stata rimossa completamente la nozione di paesaggio, ma sono rimasti in piedi la sovrapposizione di competenze e l’intrico di norme fra Stato e Regioni e tra Ministeri differenti, rendendo sempre più incerta la delimitazione fra paesaggio, urbanistica ed ambiente, che sono  regolati da diverse normative e ricadono sotto diverse responsabilità. Non a torto insigni studiosi si domandano se “territorio”, “ambiente” e “paesaggio”, siano tre cose o una sola. Può esistere un “territorio” senza ambiente e senza paesaggio e viceversa? Non sarebbe meglio creare un unico ministero per i beni culturali, il paesaggio e l’ambiente? Non sarebbe ora di ricomporre sul piano normativo le tre Italie del paesaggio, del territorio e dell’ambiente?

La fotografia della situazione odierna è la stessa di quella denunciata in un articolo del 1987 da Antonio Cederna, archeologo e giornalista che condusse memorabili battaglie in difesa del patrimonio storico ed artistico:  “Chi oggi intraprendesse il grand tour potrebbe alla fine scrivere quella “guida dell’Italia alla rovescia”… in cui illustrare i maggiori scempi e disastri: pinete litoranee lottizzate, aree archeologiche insidiate dall’edilizia, mare in gabbia e coste trasformate in congestionati suburbi, fiumi ridotti a cloaca, colline e corsi d’acqua devastati dalle cave, case e industrie costruite in zone franose, preziose zone umide trasformate in campi di patate, monumenti famosi incastonati fra i casamenti della periferia, boschi abbandonati, montagne scorticate e ricoperte da fili e tralicci, pendici di vulcani urbanizzate, parchi nazionali occupati da condomini e tagliati da strade rovinose, scarichi fumanti di rifiuti, la macchia mediterranea privatizzata dal reticolo edilizio, e via dicendo. Un insensato sparpagliamento del costruito elimina ogni distinzione tra città e campagna, annulla ogni identità fisica e storica, un’ininterrotta crosta di cemento e asfalto va man mano sostituendosi alla crosta terrestre” (6).

Se poi ci chiediamo di chi siano le responsabilità, ebbene, le responsabilità vanno equamente distribuite tra popolazioni, classe politica ed intellettuali. Gli italiani, in generale, non hanno mostrato di amare la propria terra, sono stati e sono artefici e vittime d’un società fondata sulla crescita indiscriminata, sullo spreco e sul consumo di beni, tra cui spicca il territorio che è certamente “il bene più prezioso perché scarso e limitato” (Cederna). La classe politica, anziché educare e governare il territorio, ha assecondato egoismi, spinte anarcoidi e, in taluni casi, appetiti malavitosi. Gli intellettuali, infine, sono stati a lungo succubi di culture e visioni del mondo (marxismo, scientismo, idealismo, un certo filone del cattolicesimo) poco rispettose per il valore in sé della natura. Domina tuttora la convinzione che il progresso si identifichi con l’industrializzazione, che il benessere coincida con la crescita continua della produzione e del consumo di risorse, di  territorio, di beni.

“Chi mai direbbe – si chiedeva vent’anni fa Antonio Cederna – che siamo il paese di San Francesco, il santo più immeritato e meno italiano, che ha detronizzato l’uomo dal suo dominio sulla natura e ha predicato la tenerezza, la fratellanza con ogni altra cosa animata e inanimata… e raccomandava di lasciare in ogni orto un pezzo di terra non coltivata perché potessero liberamente crescere le erbacce?” E profetizzava: ”tra poco più di un secolo tutta l’Italia sarebbe ricoperta di una continua, ininterrotta, repellente crosta edilizia e di asfalto, tale da distruggere ogni produttività agricola e cancellare la stessa fisionomia paesistica, naturale, culturale di quello che fu chiamato il Bel Paese” (7)

Certo, non è tutto nero: crescono il bisogno di natura e la coscienza ambientale in larghi strati della popolazione, ci sono associazioni ecologiste che si battono strenuamente per la tutela del territorio e per un modo di vivere all’insegna della decrescita, la magistratura interviene più frequentemente ed incisivamente, la legge Galasso ha esteso il vincolo ambientale a intere categorie di beni (coste marine, fiumi e laghi, boschi e foreste, montagne al di sopra di una certa quota, eccetera), sono stati istituiti nuovi parchi ed oasi protette.

In questo quadro l’art. 9 della costituzione lungi dall’essere una mera dichiarazione d’intenti si pone come “il solido baluardo della cultura della conservazione in Italia. Esso riassume una storia millenaria e la consegna alle generazioni future, e non a caso è stato ed è la bandiera delle battaglie di questi anni contro gli assalti al patrimonio culturale e al paesaggio” (8). Il paesaggio italiano è, dunque, una ricchezza che va strenuamente difesa. Ma non basta. Occorre acquisire la consapevolezza che la mancata opera di prevenzione e di tutela  del territorio si traduce in ingenti costi sociali per la collettività: basti pensare ai danni che ogni anno procurano il dissesto idrogeologico o gli incendi boschivi, scoraggiando o impedendo il turismo di soggiorno ed escursionistico promosso nelle aree protette e nei parchi che porta anche benefici economici alle popolazioni locali, senza dire dei benefici non quantificabili in moneta, come il valore della comunione con la natura. Gli ultimi drammatici avvenimenti in Sardegna insegneranno qualcosa ai ns. amministratori pubblici? Così la “terra dei fuochi” nel casertano è emblematica di una situazione ormai non più tollerabile e assai difficilmente sanabile. Detto per inciso, con questi drammatici eventi il PIL probabilmente crescerà (la macchina dei soccorsi o della bonifica si è messa in moto), ma sono cresciuti pure le devastazioni, i lutti, i disagi. Felicità e PIL da un certo punto in poi non vanno più d’accordo! Tornando al paesaggio, è ormai improcrastinabile un ponderato intervento legislativo che elimini l’incongruenza dell’attuale sistema normativo. Altrimenti, se le cose continueranno di questo passo, che cosa lasceremo alle future generazioni?

(1) in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, ed. Il Mulino 1985

(2) Gabriele D’Annunzio, in Alcione, La sera fiesolana

(3) Conservare perché, in Patrimoniosos.it

(4) La lunga guerra tra Stato e Regioni in archeomedia.net

(5) op. cit.

(6) Territorio ambiente e dintorni in Eddyburg.it

(7) op. cit.

(8) Salvatore Settis, Conservare perché, in Patrimoniosos.it).

Sandro Marano

Sandro Marano su Barbadillo.it

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