Esteri. Il sì dell’Italia all’ANP come “paese osservatore” Onu e il nuovo quadro geopolitico

C’è una domanda che non ha ancora trovato una soddisfacente risposta: perché l’Italia di Monti e Terzi – legata ad Israele a doppio filo e già autrice di scelte contrarie all’interesse nazionale (ad esempio l’embargo all’Iran) in nome della fedeltà all’alleato – ha deciso di optare per l’assenso al cambiamento di status della Autorità Nazionale Palestinese presso le Nazioni Unite? Grazie anche al contributo italiano, l’Anp, fino a qualche giorno fa mera “entità invitata”, si ritrova “paese osservatore” con la possibilità di trascinare Israele di fronte alla Corte Penale Internazionale (CPI).

Il passaggio è epocale, anche se Monti ha tentato di sostenere il contrario con discutibili acrobazie lessicali, e la reazione israeliana contro Roma non si è fatta attendere: “una delusione molto grande”, “ora cambierà qualcosa nei rapporti”, “gli amici devono parlar chiaro”, fino al tragicomico “ridateci Berlusconi!” sono i mantra più in voga a Tel Aviv. Di fatto, si è consumata una frattura, diplomaticamente rilevante, anche perché gli israeliani, che assumono come priorità le questioni di sicurezza, e non sono interlocutori con cui sia possibile operare ricami ed equilibrismi. Ogni posizionamento non gradito è letto come uno schiaffo, un affronto, un oltraggio. Monti e Terzi lo sanno benissimo. E, allora, perché?

Le motivazioni riportate a rotazione dai media mainstream sono le seguenti: era un passo necessario sulla via della pace, è servito ad isolare Hamas, è stata una punizione per le recenti violenze a Gaza, Napolitano ha voluto fare qualcosa di sinistra, l’Italia ha recuperato l’antica tradizione filoaraba di Craxi e Andreotti (!), sono stati Bersani e la Camusso, con il loro appello, a dirottare il governo. È forse pleonastico sottolineare l’inconsistenza di queste ragioni ed anche la prima, che pareva la più accreditata, è stata subito smentita dai fatti. Peraltro, fino a sette giorni prima del voto, l’Italia era ben sicura di astenersi e Tel Aviv considerava tale volontà una delle poche, acclarate certezze. Poi è successo qualcosa. Ma cosa?

“Il tutto è avvenuto mercoledì notte quando è parso chiaro che gli Usa lasciavano volentieri agli europei la possibilità di sganciarsi” scrive Francesco Battistini sul Corriere della Sera. È  la notizia che mancava. Ovunque, infatti, è passato il messaggio che Washington avesse esercitato una pressione enorme ed incessante sui partner europei affinché si allineassero su posizioni atlantiche. E la successiva sconfitta diplomatica in sede Onu era stata letta, coerentemente, come la prova definitiva del decadimento di un impero morente. A quanto pare le cose non sono andate così: gli Stati Uniti hanno volontariamente liberato gli europei da ogni obbligo, ben consapevoli dell’effetto domino di tale mossa. Osando, ma non troppo, si potrebbe ipotizzare che Obama, dopo aver concesso libertà di coscienza, si sia segretamente speso in senso inverso, cioè a favore di un voto positivo. Ancora una volta, s’impone la domanda: perché?

Un passo indietro è d’obbligo: esiste una malcelata guerra, attualmente in corso, fra due distinte fazioni dell’establishment americano. Da una parte i sopravvissuti della “rivoluzione neocon”, quella di cui George W. Bush è stato il frontman anni or sono, affezionati al sogno dell’America sola al comando, pronti ad affrontare con durezza la situazione siriana e la futura questione iraniana, disposti a servirsi ancora dei jihadisti, dichiaratamente favorevoli ad assecondare Israele nel suo espansionismo territoriale. Sono quelli che avevano puntato tutto su Romney e che, ora, prima di essere liquidati, rilanciano la centralità della vecchia dottrina. Dall’altra parte, c’è la compagine obamiana con, in mente, una nuova linea di politica estera, ben illustrata dall’analista Thierry Messan: il gigante americano è fragile, economicamente ed a livello di immagine, e non può permettersi, almeno al momento, di governare il pianeta in solitaria. Bisogna quindi dialogare con russi e cinesi (tentando contemporaneamente di separarli) e decongestionare l’area mediorientale, tagliando i ponti con l’Arabia Saudita, trovando un accordo con Assad e riconoscendo l’Iran come potenza territoriale. La probabile ascesa del senatore John Kerry, gradito a Mosca e amico personale di Assad, è da leggersi in questa chiave. Così come il rapporto del Pentagono “Decade of War” in cui i militari sottolineano l’insostenibilità delle campagne incorso ed invitano al dialogo col nemico,  nonché i recenti episodi, dal caso Stevens a quello Petraeus, tutti inseribili in questo conflitto interno all’oligarchia. I più accorti ricorderanno il fuori-onda fra Obama e Medvedev: “Dopo la rielezione – sostenne il primo – sarò più flessibile”. Il nuovo corso, appunto.

Attenzione, però, a non scambiare Obama per quello che non è: l’arretramento temporaneo dell’impero è infatti una questione tattica, strumentale, opportunistica. Non ci sono rinsavimenti ideologici e nemmeno volontà di scendere dal podio, solo un necessario “realismo” che però incontra in Israele l’ostacolo maggiore. E dunque si rivela necessario contenere gli israeliani, ed in particolare il premier Netanyahu, nelle loro sortite più audaci. Gli Stati Uniti, per ovvie ragioni, non possono procedere a brutto muso e, allora, Obama ha delegato il compito all’Europa. Esattamente come negli scacchi, vanno avanti i pedoni. E così, subito dopo il voto, a fronte della volontà israeliana di edificare centinaia di nuove unità abitative nella zona E1 di Gerusalemme e in Cisgiordania, le cancellerie europee hanno reagito con inusitata durezza: numerosi paesi, fra cui l’Italia, hanno convocato gli ambasciatori israeliani e, addirittura, è trapelata la voce che Francia e Inghilterra fossero pronte a richiamare i propri rappresentanti a Tel Aviv. Perfino la Germania, astenutasi dal voto sulla Palestina, ha richiesto una chiarificazione condendola con avvertimenti e velate minacce. E, per ora, Israele è nell’angolo.

Leonardo Petrocelli

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