L’intervista. Tarchi: “A destra difficile prevedere cosa sopravviverà a Berlusconi”

tarchiCon il  prof. Marco Tarchi parliamo del futuro della “destra” in Italia e in Europa. Ordinario di Scienza della Politica all’Università Cesare Alfieri di Firenze, Tarchi è uno degli osservatori più attenti, e più attrezzati della realtà politica italiana. Ha indagato a fondo, in questi anni, le varie vicissitudini della destra italiana, le sue trasformazioni, e, più recentemente, il fenomeno del populismo.

Negli anni settanta è stato un esponente di spicco del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del MSI, alla cui guida si candidò nel 1977 raccogliendo la maggioranza dei voti dell’assemblea nazionale. Voti che però non servirono a nulla perché  Almirante scelse poi Gianfranco Fini per quel ruolo.
Uscito dal Msi nel 1981, Tarchi  ha portato avanti in questi anni una riflessione “non conformista” , meta – politica, sui grandi temi del presente, andando contro i santuari del pensiero unico liberale e le rigidità dello schema destra-sinistra. Attualmente dirige il bimensile “Diorama Letterario” e il quadrimestrale “Trasgressioni”.
Tra le sue opere più importanti, La “rivoluzione legale” (Il Mulino, 1993), Cinquant’anni di nostalgia. La destra italiana dopo il fascismo (Rizzoli, 1995), Esuli in patria. I fascisti nell’Italia repubblicana (Guanda, 1995), Dal MSI ad AN: organizzazione e strategie (Il Mulino, 1997), L’ Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi (Il Mulino, 2003), Il fascismo. Teorie, interpretazioni, modelli (Laterza, 2003), Contro l’americanismo (Laterza, 2004), La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla nuova Destra (Vallecchi, 2010)

Professor Tarchi, il Pdl alle prese col problema dell’”agibilità politica” di Berlusconi si appresta a diventare (di nuovo) Forza Italia. Cosa pensa di questo percorso?

Che è il logico sbocco delle premesse che hanno tenuto a battesimo il Pdl: un partito – più di nome che di fatto, per la sua scarsa consistenza organizzativa – che non aveva un’identità accomunante e nasceva per l’imposizione del più autorevole azionista di riferimento a “cofondatori” riottosi, uno dei quali, Fini, già da tempo dimostrava di non digerire la leadership di Berlusconi e la metteva spesso pubblicamente in discussione. Chi al tempo dell’esternazione del “predellino” giudicava anacronistici i partiti “monoidentitari” (affermazione testuale di Altero Matteoli) sbagliava di grosso. Senza una piena condivisione di programmi, ideali di riferimento e strategie un movimento politico non può che fallire. Il ritorno a Forza Italia ne è la prova. Con l’aggravante che, in questa svolta ad u, rischia di smarrirsi ancor più di quanto già non accada oggi l’area di consenso elettorale che era stata intercettata da Alleanza nazionale. C’è poi da chiedersi se la rinascita di Forza Italia si accompagnerà all’ascesa di una classe dirigente nuova, più giovane e in grado di decidere autonomamente le mosse future. Al momento, ne dubito fortemente.

Il termine “berlusconismo” è entrato ormai a far parte stabilmente del linguaggio della politica. Ma esiste davvero il “berlusconismo”, in quanto concezione della politica, della società, sopravvivente a Berlusconi stesso?

Il fenomeno è esistito, senza dubbio, e il fallimento del Pdl ne è una prova “a contrario”: se il partito non è decollato, la sua tenuta elettorale, pur in declino negli ultimi anni, è stata dovuta esclusivamente alla capacità del leader di coagulare una quota di consensi personale. Ma più che di una concezione della politica e della società, di cui sarebbe arduo identificare un contorno preciso, parlerei della capacità di attrazione di una personalità e di uno stile comunicativo. Non ha torto chi sostiene che della promessa “rivoluzione liberale” Berlusconi non ha realizzato pressoché niente; ma è stato molto bravo nel tenerne in vita lo slogan, addebitando – a volte a torto, a volte con qualche ragione – ad altri i motivi dell’impossibilità di tradurre in pratica gli intenti proclamati. Cosa sopravvivrà a Berlusconi, è difficile che un politologo, con i suoi strumenti, possa prevederlo. Dipenderà dalle circostanze, dalle mosse di altri soggetti, da eventi esterni. Una sola cosa è certa: la politica non ammette vuoti nei suoi spazi di competizione; quando se ne libera uno, non ci vuole molto perché qualcuno venga a riempirlo. Un’ampia fetta dell’elettorato italiano non ama la sinistra e non intende votarla. Può astenersi, ma se troverà rappresentanti credibili li sosterrà.

Grillo, Berlusconi, Renzi. Ieri anche Di Pietro, Bossi. Il populismo è ormai la cifra della politica italiana?

Occorre distinguere fra attori genuinamente populisti, come Bossi e Grillo, ed altri che in diverse dosi utilizzano argomenti e stili comunicativi ispirati al populismo, perché ne hanno capito l’efficacia, senza però interpretarne fino in fondo la mentalità. Questo vale per Berlusconi e ancor più per Renzi, che sta mescolando elementi molto diversi e spuri. Non c’è dubbio, comunque, che il populismo ha il vento in poppa perché è alimentato dalla pessima gestione della politica di cui la classe dirigente italiana ha dato ampia prova da decenni a questa parte. La denuncia della corruzione, dell’arroganza, dell’egoismo dei politici di professione che fa da principale cavallo di battaglia dei populisti oggi non può che trovare un ampio ascolto. C’è semmai da stupirsi che il fenomeno non abbia sfondato ancor di più, e che molti potenziali elettori populisti continuino ad arroccarsi nell’astensione. Anche la gravità di altri fenomeni che i partiti avversari ignorano – come quelli legati alle conseguenze dell’immigrazione di massa, delle delocalizzazioni, dello strapotere finanziario, tanto per citarne alcuni – è destinata a continuare a portare acqua al mulino dei populisti di vario segno.

Da tempo lei sostiene che le categorie di destra e di sinistra non servono più a rappresentare i campi della politica. Dunque nessuna differenza tra  chi si proclama di destra o di centro destra e chi si proclama di sinistra o di centrosinistra nel nostro paese?

Non ho mai sostenuto questo, e una gran quantità di miei scritti lo testimonia. Ho sostenuto, e più che mai sostengo oggi, che lo spartiacque sinistra/destra non è capace di rappresentare alcune delle più significative linee di conflitto che attraversano le attuali società, e dunque è obsoleto. In passato aveva iniziato a dimostrarlo il sorgere dei movimenti ecologisti, che affermavano tematiche trasversali, in cui il riferimento alle due polarità non aveva alcuna utilità. Oggi il successo di populisti alla Grillo non fa che confermarlo. Resta il fatto che l’abitudine e l’ossessiva ripetizione dello schema bipolare operata dai mezzi di comunicazione di massa continua ad agire nella mente di un buon numero di individui, che si sentirebbero sperduti se non potessero più avvinghiarsi a questi talismani. È la ben nota legge del cane di Pavlov: se lo hai abituato a collegare il suono della campanella con la somministrazione del cibo, quando ascolta il suono, l’animale attiva le ghiandole salivari anche se la ciotola è vuota. Ma molti di questi potenziali orfani della diade sinistra/destra, quando sono chiamati a declinare i motivi per cui si richiamano all’uno o all’altro dei poli, o non sanno cosa dire o dicono le stesse cose. Il che è indicativo.

Ritornando al campo del centrodestra (così autodefinentesi), quali sono le differenze con la destra europea?

Quello della “destra europea” è un concetto vago e spesso chiamato in causa per motivi strumentali – da sinistra non meno che da destra. Non si possono infilare in uno stesso contenitore i programmi e le linee di azione di Merkel, Cameron, Sarkozy, Rajoy, Samaras o dei recenti vincitori delle elezioni norvegesi. Rispetto a qualche decennio fa, le specificità nazionali hanno guadagnato peso, e nel vuoto dei riferimenti ai valori sono gli imperativi della prassi a dettare la linea. Non è più il tempo dei duri-e-puri del neoliberalismo contrapposti agli intransigenti del welfare state. Nella notte della crisi dei sistemi liberaldemocratici, molte vacche sono diventate grigie o nere. Certo, esistono comunque alcuni (sempre più vaghi) tratti di similarità: richiami – a volte ipocriti – al peso delle identità nazionali e dei principi religiosi, un più marcato accento sul valore dell’identità nazionale, una dichiarata simpatia per il mercantilismo e il consumismo, un atlantismo spesso senza riserve… Ma ci sono anche molti temi su cui la convergenza è tutt’altro che scontata. Quanto al centrodestra italiano, come ho detto prima è impresa difficile individuarne linee programmatiche – non dico ideologiche o almeno valoriali – nette e unificanti. Su molti argomenti, negli anni ha assunto atteggiamenti ondivaghi: basti pensare al rapporto con il processo di unificazione europea o alle scelte in materia di diritti civili e bioetica. In genere, la sua opposizione ai dogmi del “politicamente corretto” è andata fortemente attenuandosi. Per non sembrare fuori dal proprio tempo, questa “destra” ha accettato gran parte dell’agenda culturale dettata dalla “sinistra” (a sua volta preda di un’evoluzione caotica e snaturante).

In Francia fa molto discutere il successo che sta mietendo il Front National di Marine Le Pen. Come spiega questo fenomeno? Cosa è cambiato rispetto alla stagione che ha visto protagonista il padre Jean –Marie?

Al di là dei dati connessi alla crisi socioeconomica, che oggi favoriscono anche in Francia un partito di netta opposizione e critica al “sistema Umps”, cioè all’intera classe dirigente di sinistra e di destra, due sono i dati dirimenti. Il primo è di immagine: Marine è nata nel 1968 e, malgrado il cognome, non porta sulle spalle il peso della controversa eredità della generazione paterna – collaborazionismo per alcuni, colonialismo per altri – ed è difficile rappresentarla come un “vecchio arnese” segnato dalle nostalgie per il regime di Vichy o l’Algérie française. Il secondo è anche di sostanza programmatica: oggi il Fn ha fatto proprie molte delle tematiche di successo del populismo, stingendo fin quasi a cancellarle le stigmate ideologiche dell’estrema destra che dal 1972 in poi il Front National aveva conservato. Se a ciò si aggiunge lo sbandamento della destra di ascendenza gollista dopo la sconfitta di Sarkozy, il relativo “sdoganamento” di questo partito non può stupire.

Quello del FN potrebbe essere un modello per una “nuova”destra europea in questo quadro di crisi della Ue?

No. Quel modello ha senso e successo se è legato a una posizione “né destra né sinistra” e non si piega ad alcune delle tendenze più in voga nelle destre contemporanee, a cui ho accennato. Omologandosi alle parole d’ordine liberalconservatrici, una parte del suo elettorato potenziale se ne allontanerebbe.

*da Calabria on web

Luigi Pandolfi

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