L’oscena vignetta contro Lollobrigida, l’ordine dei giornalisti e i due pesi

Non c'è bisogno di censori, ma la satira e la titolazione dei media è squilibrata per motivi eminentemente ideologici

Giornali

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Non ho mai nutrito molta considerazione nei confronti dell’Ordine dei Giornalisti. In gioventù fui orgoglioso di avere ottenuto, dopo un congruo numero di collaborazioni più o meno retribuite, la famosa “tesserina verde” di pubblicista, però mi accorsi presto che i benefici assicurati erano appena sufficienti a ripagarmi delle quote annuali. E a costo di scandalizzare il mio amico Gastone de Anna, storico presidente dell’Ordine dei Giornalisti toscano, coniai la battuta secondo cui l’Ordine era utile come, secondo Clemenceau, l’Esercito italiano e gli attributi virili del Papa.

Col tempo la situazione è addirittura peggiorata: gli sconti ferroviari sono scomparsi, come le famose “credenziali Alitalia” di cui non ho mai usufruito, e i minimali per le collaborazioni sono ormai un ricordo, vista la sempre più diffusa concorrenza al ribasso. La funzione di filtro per l’accesso al professionismo, al fine di evitare la nascita di un proletariato redazionale che comporta fatalmente un abbassamento delle retribuzione, è venuta meno con il proliferare delle scuole di giornalismo; in più l’imposizione anche ai pubblicisti della PEC e della frequenza a corsi di aggiornamento costituisce un’ulteriore scocciatura. Mantengo l’iscrizione per il privilegio di accedere gratuitamente ai musei statali in Italia e in Europa – non piccolo, visto il vergognoso aumento del costo della cultura – e anche per quella forma di scaramanzia che c’induce a non abbandonare dopo oltre quarant’anni una consuetudine ormai meccanica, la stessa che ci impedisce di rimuovere una cornice col ritratto di un antenato di cui non conosciamo nemmeno il nome, ma che “è sempre stato lì”, e se lo spostassimo chi sa cosa potrebbe succedere.

Mi dette noia, soprattutto, la censura con cui il consiglio di disciplina dell’Ordine dei Giornalisti censurò il quotidiano “Libero” per il titolo – “La patata bollente” – con cui il giornale il 10 febbraio 2017 prese in giro Virginia Raggi. Confesso di non avere mai letto l’articolo, ma il fatto che un semplice gioco di parole potesse costituire motivo di sanzione da parte dell’organo che dovrebbe costituire invece un presidio dell’indipendenza del giornalista mi parve un assurdo. Non per amore nei confronti di Feltri, ma della libertà di stampa. Oltre tutto nelle espressioni con cui l’Ordine motivò il provvedimento – “dileggio sessista”, “evidenti richiami sessuali” – colsi l’eco di una orwelliana e puritana neolingua che sta ormai ipotecando il nostro modo di scrivere e di riflesso di pensare. L’organo che avrebbe dovuto tutelarci dalla censura si era trasformato in censore, in nome dell’anatomicamente corretto.

Per questo motivo non invocherò le sanzioni dell’Ordine nei confronti del “Fatto Quotidiano” per l’oscena vignetta su Lollobrigida e signora comparsa su quel giornale. Intanto perché, da buon fiorentino che preferisce perdere un’amicizia piuttosto che rinunciare a una battuta (vedi sopra), non me la sento di scagliare la prima pietra. E poi perché resto persuaso che compito dell’Ordine dovrebbe essere non di sostituirsi ai tribunali, ma di tutelare i giornalisti, cominciando ad aggiornare i tariffari, oggi vergognosamente bassi e oltre tutto costantemente elusi. Non posso fare a meno di constatare però che nell’etica professionale corrente non tutte le patate sono uguali: alcune sono più uguali (e bollenti) delle altre. 

  

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

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