“Disobbedisco”, D’Annunzio e la rivoluzione di Fiume vista da Guerri

L’impresa fiumana non fu soltanto l’espressione di un acceso nazionalismo ma rappresentò un crogiolo di idee, speranze e contraddizioni di un microcosmo di slanci ribelli

“Disobbedisco” di Giordano Bruno Guerri

L’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio non fu soltanto l’espressione di un acceso nazionalismo ma rappresentò un crogiolo di idee, speranze e contraddizioni di un microcosmo che incarnò gli slanci, le suggestioni, i miti e gli azzardi di una generazione disposta a ribellarsi contro il sistema capitalistico e l’ordine sociale delle democrazie liberali occidentali.

Edita dalla casa editrice Mondadori, “Disobbedisco – Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-20” è un’accurata monografia di Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani” e insigne storico, che ripercorre l’epopea del poeta-soldato, seduttore del popolo e abile pioniere della comunicazione politica di massa, fautore convinto delle virtù guerriere e dei valori funzionali alla rinascita della patria.

L’occupazione

Un fronte nazional-rivoluzionario di volontari irredentisti, ex combattenti, membri dell’Associazione Arditi d’Italia, nazionalisti, fascisti, repubblicani e futuristi occupò nel nome del principio di autodeterminazione la città multietnica di Fiume, a netta maggioranza italiana (certificata da un referendum popolare) e destinata nelle intenzioni di Nitti alla condizione di “Stato libero” sotto il controllo della Società delle Nazioni, previa rinuncia delle concessioni territoriali stabilite dal Patto di Londra. 

L’esaltazione della volontà creatrice del popolo come fondamento di una politica di potenza alternativa al parlamentarismo e all’egualitarismo contribuì ad allargare le fila dei legionari dannunziani a granatieri, fanti, cavalieri e truppe d’assalto da contrapporre ai carabinieri del governatorato militare; di fronte al mancato riconoscimento dell’autorità del Consiglio nazionale filo-italiano da parte delle forze d’occupazione interalleate (francesi, inglesi e americane), l’intuizione dell’eccentrico barone Guido Keller – proporre il nome del Vate alla guida della città – diede fiato ai sogni rivoluzionari.  

Non senza menzionare il sostegno della massoneria alla causa dell’annessione, l’autore si sofferma sulle ripetute azioni di pirateria che costellarono le vicende dell’impresa consentendo agli insorti di accumulare denaro, viveri e armi nel pieno di una disastrosa congiuntura economica, sulla collaborazione garantita dalla Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare di Giuseppe Giulietti (il potente sindacato di sinistra sganciato dal partito socialista), sui blocchi navali e di terra e sui contemporanei aiuti della Croce Rossa a favore della sola popolazione civile, sui negoziati – sotterranei e subdoli, basti pensare al fallimento delle trattative con Pietro Badoglio, Commissario straordinario del governo per la Venezia Giulia – volti a scongiurare un intervento militare da parte del governo di Roma.

Un “laboratorio” politico

In parallelo emergono le peculiarità di un’esperienza intesa come rivoluzione dei costumi e dei modi di concepire la comunità, della città di Vita immersa nei vizi della mondanità, nelle feste e nelle celebrazioni in onore del Comandante, capace di avvolgere la propria personalità di un’aurea di sacralità in una commistione di riti guerreschi e liturgie cristiane in occasione delle ricorrenze del venti settembre, del patrono San Sebastiano e delle visite di sostenitori illustri, come Marconi e Toscanini. 

All’interno di un contesto in cui D’Annunzio cercò nella collaborazione con i popoli asiatici (Giappone in primis) la via per l’edificazione dello Stato e dell’uomo “nuovi”, respinse il bolscevismo ma si dichiarò disponibile ad avviare relazioni con Mosca (lasciando libera voce al settimanale “La testa di ferro” di Mario Carli, ammiratore dei soviet) e prese contatti con indipendentisti egiziani e irlandesi, Guerri identifica in alcuni tratti del fiumanesimo – l’immaginazione al potere, l’esaltazione della natura e di un primitivismo di matrice ottocentesca alternativo ai processi di industrializzazione, il cosmopolitismo orientato verso la rivoluzione mondiale, la pratica di mettere i fiori nelle canne dei fucili dei soldati – i prodromi del Sessantotto.

L’assoluta incompatibilità del Comandante con le “gabbie” delle divisioni ideologiche fu il pre-requisito di un “cortocircuito” politico, sociale, economico e diplomatico che si sostanziò nel progetto della Lega di Fiume, cioè nel sogno romantico di un’associazione internazionale indipendente dei popoli oppressi, rimasto ignoto fino agli anni settanta. Da qui derivò la sua naturale propensione a stringere rapporti con i separatisti croati orientati a riconoscere la sovranità italiana sulla costa adriatica e ad appoggiare qualsiasi movimento balcanico ostile alla Serbia, prefigurando un assetto – che prevedeva anche l’instaurazione di un protettorato a garanzia dell’integrità territoriale dell’Albania, mentre l’Italia si sarebbe ritirata in fretta dal paese – in cui i diritti delle minoranze rimaste entro i confini stranieri dovevano essere tutelati.

Carta del Carnaro

La Carta del Carnaro

Massima espressione di un modello che, nella previsione dell’annessione di altre città, si ispirava al sistema cantonale svizzero della democrazia diretta, del decentramento e della convivenza tra etnie fu la Carta della Reggenza del Carnaro, un progetto all’avanguardia mai concretamente attuato – redatto a quattro mani con un esponente di sinistra, il sindacalista Alceste De Ambris – che eresse a principi costituzionali basilari il bicameralismo, il lavoro produttivo, il diritto di voto attivo e passivo alle donne, la proprietà privata subordinata alle necessità del bene comune. Quest’ultimo elemento costituì un campanello d’allarme per la fazione liberista e conservatrice, insieme alla possibilità d’istituire una dittatura temporanea nei casi di “pericolo estremo”. 

Se la previsione della leva obbligatoria equivalse alla mobilitazione generale della popolazione, la creazione di una Commissione di censura per piegare l’opposizione dei socialisti locali e degli autonomisti di Zanella, quella di un Comitato di Difesa e Salute pubblica d’ispirazione giacobina favorevole al trasferimento della ribellione in Italia e la decisione di invalidare il referendum che aveva approvato a larga maggioranza il modus vivendi per Fiume, suscitarono un malumore diffuso fra gli ufficiali in servizio attivo e soprattutto offrirono validi argomenti di protesta a chi aveva denunciato il carattere non democratico del sommovimento in atto.

Sullo sfondo delle ripetute tensioni fra legalitari e legionari rivoluzionari (inquadrati in un esercito su base volontaria anche per fronteggiare i frequenti episodi d’indisciplina, abbandono e diserzione) gli scontri con l’esercito regolare, che concordò un piano di operazioni congiunte con la marina rivelatore dei propositi del governo italiano, presero il sopravvento sui tentativi di negoziato.

Dal trattato di Rapallo al Natale di sangue

Le faticose mediazioni sfociate nel trattato di Rapallo nascosero infatti un inganno, riconosciuto a posteriori nell’aula del Senato dal generale Caviglia e che D’Annunzio cercò invano di disinnescare: il riconoscimento di Fiume (compreso il porto, la ferrovia e il distretto) quale “Stato libero” collegato all’Italia da una striscia di litorale venne contraddetto da un’interpretazione del governo Giolitti – esplicitata in una lettera segreta – in base alla quale il porto Baross era stato concesso al sobborgo croato di Sussak.

Il dettaglio influì sull’irrigidimento del Vate, erroneamente convinto del fatto che Giolitti non avrebbe osato un intervento armato tale da provocare la ribellione di buona parte degli italiani e dei fascisti; una visione opposta a quella di non pochi suoi sostenitori (persuasi che la fiducia della maggioranza dell’opinione pubblica fosse ormai venuta meno dopo quattordici mesi di attesa) e dell’Ammiraglio Millo, governatore della città dalmata di Zara, che abbandonò il proprio incarico. 

L’impopolarità della scelta di D’Annunzio – alla stregua dell’ammiraglio Nelson, sicuro di compiere un gesto di coraggio nobile e raro disobbedendo a ordini ritenuti in conflitto con l’onore nazionale, ma impotente di fronte alla rapida azione repressiva che si concluse con il Natale di sangue – ebbe ripercussioni anche negli ambienti più estremi. Basti pensare, a mero titolo di esempio, all’effimera esperienza dell’associazione intellettuale, artistica e politica Yoga (“anima” anche dell’omonimo settimanale) e della sua galassia eterogenea di “spiriti liberi” che, pur non attaccando direttamente il poeta, propugnarono una forma di militanza aggressiva in grado di esprimere la carica rivoluzionaria e il potenziale non espresso dai legionari.

D’Annunzio e il fascismo 

Sulla scorta di parametri di giudizio generici e superficiali la vicenda fiumana è stata a lungo interpretata come prologo del fascismo, interessato a presentarsi come suo naturale erede e ad interiorizzarne l’essenza: è fuori discussione che il regime di Mussolini abbia attinto a piene mani ai suoi motti, ai miti e ai simboli suggestivi (non ultimo in ordine di importanza il culto del corpo, del movimento e delle attività sportive), così come alcuni dei suoi più noti esponenti provenivano da quei trascorsi, mentre altri legionari aderirono poi all’antifascismo e alla resistenza. 

Colmata in parte grazie al prezioso contributo di Renzo De Felice, una cronica scarsità di fonti e la conseguente carenza di studi hanno impedito di individuare la reale natura dei rapporti tra Mussolini e il poeta, spesso contrassegnata da convenienze reciproche. Acquisizioni più e meno recenti hanno corretto talune letture parziali: ad esempio, l’uno accusò l’altro di non sostenere adeguatamente la spedizione in una lettera pubblicata da “Il Popolo d’Italia” omettendo i passaggi più compromettenti, circostanza che il Vate non denunciò verosimilmente per senso di superiorità (la mistificazione fu scoperta nel 1954).

Il duce del fascismo abbandonò ben presto un atteggiamento intransigente sulla questione adriatica, lasciando intendere all’interlocutore che tale posizione fosse dettata da una cautela strategica; negò il proprio appoggio nell’ipotesi di una marcia da Fiume su Roma; mantenne un atteggiamento prudente sul Trattato di Rapallo al costo di giungere a compromessi con il ben più battagliero fascio della città; annunciò con riferimento al tragico epilogo una manifestazione contro il governo, rassicurando allo stesso tempo il prefetto di Milano che l’ordine sociale e la tenuta dell’esecutivo non sarebbero stati turbati. Dal canto suo D’Annunzio si ritirò a vita privata al Vittoriale, tutelò in tutti i modi il culto della propria persona e celebrò il ricordo dei martiri della sua impresa, estraniandosi dalla vita politica, dalle lotte di potere che lo avevano verosimilmente consumato e non lesinando periodiche critiche verso Hitler e la Germania nazista.  

Si può convenire con l’autore che la lenta evoluzione interpretativa abbia contribuito a restituire l’immagine di una vicenda a lungo silenziata nella componente libertaria e risorgimentale di parte del combattentismo del primo dopoguerra, collocando la carismatica (e sotto certi aspetti enigmatica) figura del Comandante nel ruolo del protagonista di un mondo in fase di cambiamento, di una confusa ma sincera volontà di liberazione della personalità umana, di paladino della democrazia sindacale e delle minoranze, prigioniero nel contempo di una visione smisuratamente autoreferenziale della rivoluzione.

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Andrea Scarano

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