Come mitigare la solitudine tra letture e viaggi (secondo Stenio Solinas)

Bietti ripubblica (con una nuova introduzione e una appendice) l'autobiografia intellettuale e sentimentale del giornalista e scrittore

Compagni di solitudine di Stenio Solinas per Bietti

E’ nelle librerie, per Bietti, la nuova edizione di uno dei libri più significativi di Stenio Solinas, Compagni di solitudine. Una educazione intellettuale (per ordini: 02/29528929, pp. 361, euro 20,00). L’autore, scrittore di vaglia, ricorda che, vent’anni fa, la prima edizione di questo volume nacque per sollecitazione di Mario e Luigi Spagnol, figure di primo piano dell’editoria nazionale che, colpiti dalla lettura del pamphlet, Per farla finita con la destra, apprezzando lo stile di Solinas, gli chiesero cosa custodisse nel cassetto. Ne uscì Compagni di solitudine. La seconda edizione è arricchita da un’introduzione dell’autore e da un’Appendice che raccoglie diverse recensioni uscite allora, la cui lettura consente di comprendere come ci si trovi di fronte a un testo di rilievo.

   In queste pagine, Solinas ricostruisce la propria ricerca intellettuale, presentando gli autori che hanno avuto un ruolo rilevante nella sua formazione: la formazione, si badi, di un uomo che ha attraversato il tempo in cui gli è stato dato in sorte di vivere, animato da distacco esistenziale nei confronti degli idoli di fronte ai quali si prostrano i nostri contemporanei. Compagni di solitudine è pertanto un «romanzo di idee» (p. 17), la cui prima parte è connotata da stile colloquiale. L’autore, da par suo, coinvolge il lettore nel flusso narrativo intermittente, messo in atto dall’uso dell’interpunzione, il cui modello è esplicitamente riconosciuto nelle pagine del Male oscuro di Giuseppe Berto. Nella seconda parte, il dinamismo stilistico si placa e si distende nella discussione delle opere dei “compagni di solitudine”, le cui pagine Solinas ha frequentato, non solo con continuità, ma animato dalla passione di chi ha contezza, che la lettura è una delle grazie di cui può avvalersi l’uomo per rendere meno greve la vita.   

   Chiave d’accesso, atta a illuminare l’universo interiore dell’autore, è da individuarsi in Arturo Pérez-Reverte: «Il protagonista dei suoi romanzi è sempre lo stesso tipo umano» (p. 29), un “avventuriero”, sia che abiti nella Spagna di Cervantes, o negli anni Trenta del secolo XX. Reverte mette in scena nei romanzi: «la dignità della sconfitta, […] il senso dell’onore come ultima e unica risorsa, […] il sentimento dell’amicizia e della fedeltà che lega fra loro i vinti» (p. 32). Si tratta del medesimo contesto esistenziale che anima i personaggi di Chateaubriand nella Francia rivoluzionaria di fine Settecento. A Solinas e alla generazione che, per dirla con Gianfranceschi, “non fece in tempo a perdere la guerra”, quella Francia lacerata, senza possibilità di conciliazione tra le parti politiche, sembrava molto simile all’Italia postbellica. In quel frangente storico, con la definitiva conquista dell’egemonia culturale, la sinistra nostrana si trasformò in “etnia”, in “razza padrona” il cui sguardo moralista, venato di razzismo antropologico, ridusse l’altro da sé, chi si riconosceva nella “destra” paradossale incarnata dai figli di Salò, in paria. Solinas ha avuto l’avventura di far parte di questa sottorazza, e ha scontato tale appartenenza in termini umani e professionali. 

   È in questo ambiente che maturò i propri gusti e, soprattutto, i propri disgusti. I primi lo indussero a scegliersi, quali compagni di viaggio e d’avventura: «quegli scrittori che alla propria individualità alla fine non avevano mai rinunciato […] spiriti più liberi… anime più nobili» (p. 63). Tra essi Drieu, Jünger, Marlaux, Saint-Exupery, Lawrence. Pochi gli italiani cui la generazione dei “giovani nazionali” nati negli anni Cinquanta guardò con interesse, tra essi Evola. Il filosofo romano fu idolatrato, nei Settanta, dai giovani di “destra”, ma il suo tradizionalismo è lontano dalla visione di Solinas, il quale sostiene di aderire alla concezione sferica, aperta della storia, in cui il possibile è sempre in agguato come, proprio in quegli anni, sostennero Giorgio Locchi e Paolo Isotta (l’Evola “idealista magico”, condivideva, comunque, tale posizione). L’idolatria evoliana,   produsse il germe malato degli “evolomani”, degli scolastici ripetitori del verbo del maestro: «un vero e proprio caravanserraglio dell’esoterismo […] aristocratici del pettegolezzo e della calunnia si lanciavano insulti che ritenevano sanguinosi» (pp. 66-67). Per questi ultimi, l’evolismo, con il correlato del necessitarismo storico-ciclico, fu dottrina di rassicurazione politica-esistenziale. I disgusti di Solinas lo portarono al disprezzo per il mondo in cui trionfavano l’utile e il materialismo, ma lo indussero a prendere le distanze dall’altrettanto sterile e culturalmente asfittico mondo ideale della “destra” dell’epoca, connotato dalla circolazione degli stessi nomi, inchiodato a esegesi ripetitive e vincolato alla mera lettura “politica” degli autori indagati, presto divenuti oggetto d’adorazione fideistica e acritica.

    L’autore ricorda il tentativo della Nuova Destra, di cui egli fu interprete di primo piano, mirato a rinnovare un patrimonio di idee staticizzato da nostalgismo e retorica: «Era una volontà di presenza…una chiamata alla vita…un calcio alle ragnatele dove soffocavano intelligenze e passioni» (p. 71). Un’occasione persa, mancata, tradita dall’irruzione del berlusconismo e di tutto ciò che ha rappresentato. Con la Nuova Destra, a riemergere fu la dimensione dell’avventura intellettuale, la valorizzazione delle capacità individuali, il confronto con la modernità. Da questo punto di vista, a parere di chi scrive, Solinas conferma la veridicità delle tesi di Antoine Compagnon. Gli antimoderni, o quantomeno, coloro che guardano ai valori premoderni, risultano   paradossalmente più moderni dei progressisti, capaci di interagire con il reale attraverso la cultura, nel caso del Nostro, attraverso la parola scritta.

   Solinas ha ragione nel sostenere che certi libri riescono a farci sentire meno soli, proprio rafforzandoci nelle nostre solitudini. Essi inducono la contrapposizione a quella che Carlo Michelstaedter definì la “comunella dei malvagi” e  aiutano a costruire una comunità che  abbraccia tempi e spazi lontani, quella dei solitari, degli “avventurieri”, coloro che non rinunciano all’ “invincibile estate” (Camus) e la mantengono viva, in tutte le età della vita.

   Solinas ha quali compagni di solitudine Drieu e Malraux, accomunati da un destino comune pur nella diversità, Lawrence: «uomo assediato, sempre bisognoso di una fortezza in cui rinchiudersi […] Era l’assedio […] dell’insensatezza della vita, della condizione umana» (p. 135), Saint-Exupéry che: «cerca di indicare agli altri proprio la dignità umana che scaturisce dalla consapevolezza di avere uno scopo che li trascende» (p. 149), ma soprattutto Céline, maestro di stile. Un ruolo importante il Nostro attribuisce ai grandi viaggiatori, da Morand a Chatwin. Nell’insolenza prodigiosa di quest’ultimo, tanto biologica quanto spirituale, è da ravvisarsi l’ubi consistam dell’uomo e dello scrittore inglese. Quella cui Solinas allude è una comunità di solitari, una comunità “impolitica”, accomunata dalla ricerca della bellezza, la cui potenza effusiva, ben lo sapeva il premoderno Dostoevskij, può “salvare” il mondo.

Giovanni Sessa

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