Lo Studio di Luigi Pirandello: la casa romana del più grande scrittore del ‘900

Dopo l’arrivo a Roma nel 1894, assieme alla moglie Maria Antonietta Portolano, Pirandello cambierà residenza ben undici volte. Il suo pellegrinaggio cessa proprio con il cosiddetto «Studio»

La Casa Museo di Luigi Pirandello a Roma

Dopo aver raccontato della Casa Museo Alberto Moravia a Roma. il caso ha voluto che ci siamo trovati di lì a breve a visitare un’altra «abitazione musealizzata» di uno scrittore sempre nella Capitale. Situato al civico n. 15 di via Antonio Bosio, in una zona appartata e residenziale del Quartiere Nomentano, lo Studio di Luigi Pirandello (1867 – 1936) è stata l’ultima dimora di quello che la critica specialistica considera indubbiamente come uno dei maggiori autori del XX secolo, forse addirittura il più importante, per la sua fondamentale innovazione dell’Arte Teatrale e la folgorante qualità narrativa, associata alla complessità tematica, dei suoi romanzi.   

Dopo l’arrivo a Roma nel 1894, assieme alla moglie Maria Antonietta Portolano, Pirandello cambierà residenza ben undici volte. Il suo pellegrinaggio cessa proprio con il cosiddetto «Studio»: così è conosciuta questa peculiare casa-museo, la quale ha sede in un sobrio villino di inizio Novecento. L’Edificio, interessato come si vedrà da articolate vicende giuridiche, è attualmente di proprietà dello Stato e ospita pure alcuni uffici del Ministero dello Sviluppo Economico. Se per la abitazione di Moravia si è affermato che questa è in effetti più casa che museo; per quanto riguarda quella di Luigi Pirandello, è difficile sostenere persino una valutazione del genere. Difatti, appena varcatane la soglia, si comprende ictu oculi che si tratta di un luogo pensato e voluto essenzialmente per lavorare e riflettere. Nondimeno, è possibile comunque avanzare una interpretazione museologica su di esso se si sposano le seguenti parole di Walter Benjamin: «abitare significa lasciare tracce». E di tracce, qui, Pirandello ne ha lasciate parecchie.

«Scelsi Roma perché poteva ospitare con indifferenza un forestiero come me.» Da tale semplice frase trasuda quel senso di alienazione che connota tutto l’opus dello scrittore. A dire il vero, già negli anni 1914 – 1918 Pirandello aveva risieduto nel Villino con la consorte e i tre figli (Stefano, Rosalia [detta Lietta] e Fausto). Fecero seguito, come detto, vari traslochi, conclusisi solo nel 1933, quando l’artista di Agrigento prese in affitto l’appartamento all’ultimo piano, abitandovi in solitudine, in una sorta di parziale romitaggio.

 

Alla sua morte, i figli subentrarono nel contratto di locazione ma, quando il 10 novembre 1938 l’intera costruzione venne acquistata dal Demanio e destinata a sede dell’Ufficio Centrale Metrico, l’allora Ministero delle Corporazioni ne intimò l’immediato sgombero. Questo spinse gli eredi di Pirandello a donare allo Stato quanto era ivi contenuto (mobili, quadri, libri, manoscritti, oggetti personali), richiedendo in cambio l’impegno formale a consegnare i locali al Ministero dell’Educazione Nazionale, affinché il tutto venisse mantenuto inalterato. L’accordo (siglato il 28 dicembre 1942) fu onorato, benché poi non si sia provveduto a predisporre una adeguata manutenzione, causa questa di un conseguente degrado degli ambienti. Soltanto nel 1961, ricorrendo il 25° anniversario della morte di Pirandello, il Ministero della Pubblica Istruzione decise di affidarne la gestione all’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo, per promuovere la ricerca sulla vita e l’opera di questo autore e, nel contempo, portare avanti una progressiva catalogazione della sua raccolta libraria e dei documenti privati. 

 

La casa di Pirandello è quasi interamente occupata da un grande salone, in cui si trovano volumi, suppellettili e la sua macchina da scrivere portatile Underwood collocata su un basso scrittoio, dinanzi al quale egli era seduto quando ricevette l’annuncio del conferimento del Premio Nobel per la Letteratura il 9 novembre 1934; notizia che suscitò in lui una reazione sardonica, visto che digitò su un foglio bianco per ventisette volte: «Pagliacciate», un gesto che incarna pienamente quel senso del paradosso che espresse in numerosi racconti e romanzi. 

Si è accennato poc’anzi alle «tracce», le quali non sono però rappresentate esclusivamente da libri e arredi, poiché un po’ ovunque nella Casa ci si imbatte nelle immagini di Marta Abba (1900 – 1988): una giovane e scaltra attrice che divenne la musa di un Pirandello abbastanza in là con l’età (lui al tempo aveva 58 anni, mentre lei 25!). La donna ebbe una influenza cruciale sullo scrittore e, malgrado si ritenga che la relazione tra i due fosse di natura platonica, è impossibile negare l’amore di quell’uomo maturo per l’attraente fanciulla. Analogo sentimento egli non provò affatto per la moglie, sposata per convenienza, e con la quale aveva continui litigi; tanto che infine, e in modo assai poco nobile, nel 1919 prese la decisione di farla ricoverare in una casa di cura per dei presunti problemi mentali. 

Andando più nel dettaglio nella descrizione dell’Appartamento, questo si compone di un ampio Salone (circa 100 mq), una camera da letto e una terrazza. L’arredo è ancora quello del 1933, quando Pirandello vi si insediò al suo rientro in Italia, terminati i periodi trascorsi a Parigi e Berlino. In un angolo vicino a una delle pareti, si trova la scrivania sulla quale Pirandello sbrigava le varie pratiche. Su di essa, spicca un ritratto in primissimo piano per l’appunto di Marta Abba scattato dal fotografo Elio Luxardo. Un elemento significativo è parimenti costituito da un portasigarette in argento – regalatogli da Gabriele D’Annunzio – con inciso sul coperchio il celeberrimo motto: «memento audere semper», che il Vate gli fece pervenire mentre Pirandello nel ‘34 stava mettendo in scena La figlia di Iorio (1904).  

Lo Studio, nei tre anni che lo videro accogliere Pirandello, è stato sostanzialmente una officina narrativa. Ad esempio, la assoluta preminenza del Salone nella distribuzione degli spazi lascia intendere che il suo inquilino, fatto salvo per determinate conoscenze intime (Corrado Alvaro, Silvio d’Amico ed Eduardo De Filippo), era oramai poco incline agli intrattenimenti mondani. A testimoniare la presenza dei familiari nella vita di Pirandello sono i quattro dipinti del figlio Fausto, esponente di spicco della Scuola Romana. Purtroppo, nonostante la innegabile bravura del terzogenito, il padre stentò a riconoscerne il talento, anche perché Pirandello stesso si dilettava con la pittura, segnatamente nella creazione di paesaggi a olio di formato ridotto (nello Studio ne sono esposti tre), dai quali si evince una predilezione per uno stile classico, laddove Fausto preferiva ritrarre le figure alla maniera massiccia e solenne di Mario Sironi, combinata con influenze espressioniste. 

Dal luminoso Salone, irradiato da cinque finestre, si passa alla piccolissima e austera Camera da Letto. All’interno si può vedere la divisa della Reale Accademia d’Italia (con feluca e spadino), alla quale Pirandello si unisce nel 1929 (appena inaugurata da Mussolini). Nell’armadio sono alloggiati i suoi vestiti, l’immancabile Borsalino e una giacca recante il Fascio Littorio sulle spalline. La questione della adesione di Pirandello al Regime è spigolosa e meriterebbe un articolo a sé. Possiamo limitarci a sostenere che l’illustre drammaturgo manifestò certo delle simpatie verso il Fascismo. Ciò che rimane però da stabilire con la necessaria esattezza e imparzialità storica è quanto questa vicinanza fosse dovuta a motivi ideologici o di mera opportunità. Sia come sia, è in questa stanza che il 10 dicembre del 1936 egli muore e il suo nome viene consegnato alla eternità della migliore Letteratura.

 

Luigi Pirandello è uno degli scrittori più rappresentativi della cultura del Novecento. Egli descrisse la società dell’epoca, percependone il profondo malessere indotto dalla graduale perdita di identità dell’individuo, stigmatizzando le ipocrisie, gli egoismi e i pregiudizi della borghesia, che alimentano inganni talmente assurdi da rendere l’Io denotabile fatalmente dall’esterno, giacché l’uomo «intero» è andato perduto, i princìpi oggettivi sono fallaci, e ciò che resta è una personalità frantumata in «uno, nessuno e centomila».

Il sommo autore siciliano disprezzava la forma insita nell’estetica delle cose, come si avverte nettamente in questa non-casa: gli oggetti che custodisce sono pochi e di modesto valore. Per converso, se si conoscono i suoi scritti e si mutua la succitata riflessione di Benjamin, ecco che la visita allo Studio assume una intensità totalmente diversa, nell’accorgersi delle tante tracce lasciatevi da colui che pensava: «La vita o si vive o si scrive». Può darsi che l’innamoramento per la Abba sia stato l’unico momento in cui trovò una pulsione capace di allontanarlo dallo scetticismo, una motivazione per credere che la realtà possedesse una qualche attrattiva; anche se alla fine Pirandello ha puntualmente suggerito alle coscienze più avvedute che ognuno di noi è destinato a subire la fasulla verità dell’altrui giudizio… come ironicamente ammonisce la Signora Ponza (Così è (se vi pare), 1917): «io sono colei che mi si crede». 

 

Riccardo Rosati

Riccardo Rosati su Barbadillo.it

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