La destra della Meloni ha stravinto ma gli alleati sono logori

La crisi della Lega è in buona parte spiegabile con l’incapacità di Salvini - cronica perché ormai di lunga data - di affrontare la corrente interna facente capo a Giorgetti, molto lontana dalle rivendicazioni e dalle istanze tipiche che fino a tempi recenti hanno costituito le fortune del movimento

Salvini sul palco di Bologna con Berlusconi e la Meloni (dal profilo Fb di Salvini)

Berlusconi, la Meloni e Salvini sul palco di Bologna

Andando anche un po’ oltre le più ottimistiche aspettative, Giorgia Meloni ha nettamente vinto le elezioni raccogliendo non solo i dividendi della scelta azzeccata di schierarsi all’opposizione del deludente governo Draghi, seppur non differenziandosene sotto l’aspetto della collocazione – più volte ribadita nelle passate settimane – in senso atlantista di politica internazionale.
L’aspirazione di Fratelli d’Italia a candidarsi a grande partito conservatore è stata premiata di pari passo con la punizione inflitta alla campagna “suicida” del Pd, molto più determinato nella ricerca di fantasmi inesistenti – dall’immancabile pericolo del fascismo ai complotti orditi da Putin a danno del governo “dei migliori” per favorire il centrodestra – che pronti a calarsi nell’incalzante attualità, che preannuncia crisi e tensioni economico-sociali dure.
E’ a volte una “legge” non scritta della politica a porre un partito giunto all’apice del consenso di fronte a problemi e dilemmi provenienti non dall’opposizione ma dal suo stesso campo “amico”. Nell’immediato la Meloni dovrà presumibilmente misurarsi non tanto con la situazione di stallo consolidatasi in Forza Italia, sostanzialmente immobile intorno ad un dato simile a tornate precedenti, ma con margini di crescita difficili perché legata a doppio filo alle sorti di un leader per nulla attratto dall’idea di passare il testimone e per la concorrenza di Azione e Italia Viva (che pure non hanno sfondato), quanto con il fragoroso capitombolo della Lega.
Il risultato è in buona parte spiegabile con l’incapacità di Salvini – cronica perché ormai di lunga data – di affrontare la corrente interna facente capo a Giorgetti, molto lontana dalle rivendicazioni e dalle istanze tipiche che fino a tempi recenti hanno costituito le fortune del movimento; un’indecisione che rischia – dal punto di vista della Lega – di diventare ancor più pesante se solo ci si soffermi sulle negative performances in generale delle formazioni populiste, da più parti in fase calante e da sempre soggette a repentine oscillazioni nei consensi.

Il populismo e il Sud

Se non è per niente scontato – come pure molti si affanneranno a sentenziare – che è giunto il momento di celebrare il de profundis del populismo, l’aver dismesso ormai da tempo quei panni – non certo su impulso di Conte che ha “ereditato” scelte altrui, costruendo un buon risultato esclusivamente nelle regioni del sud, intercettando insicurezza e disagio sociale crescenti, incuneandosi abilmente in un significativo vuoto politico e non subendo praticamente alcun contraccolpo dalla scissione di Di Maio – può paradossalmente aver giovato al Movimento 5 stelle.
A sole ventiquattro ore dal voto è prematuro azzardare ipotesi sui flussi elettorali e sull’entità delle eventuali “migrazioni” di consensi che possono aver avvantaggiato/danneggiato le singole forze politiche.
Nell’attesa degli approfondimenti demoscopici è doverosa un’ultima considerazione, non certo in ordine di importanza, sul basso dato di affluenza alle urne. Da più parti una retorica stucchevole punta spesso l’indice contro l’astensionismo degradandolo a sinonimo di ignoranza, indifferenza e qualunquismo: le cause della scarsa qualità generale dell’offerta politica e di un’evidente disaffezione – particolarmente pronunciata proprio nel sud – vengono sistematicamente omesse se non relegate in secondo o terzo piano.
C’è da scommettere che, fino a quando i vari Calenda, Renzi e Letta continueranno – come periodicamente fatto sino alla vigilia delle consultazioni – a riproporre lo spartito simile a quello della candidatura a premier di un banchiere già protagonista di un’esperienza fallimentare (dimostrando oltretutto insofferenza per le prerogative parlamentari), la crisi di rappresentanza dei partiti e il divario tra elites e popolo, riflessi della chiara invasione di campo della dimensione economico-finanziaria ai danni di quella politica e della conseguente subordinazione della seconda alla prima, si configureranno ancor più come problemi destinati ad incancrenirsi anziché ad essere risolti.

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Andrea Scarano

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