“Trent’anni e un giorno” di Fabio Granata e Peppe Nanni e il dovere della memoria. Un estratto

Nella bella prefazione Sebastiano Ardita scrive che il volume “rappresenta un omaggio originale alla umanità di quelli che riconosciamo come eroi e la “scolpisce” con i suoi racconti sempre centrati sull’aspetto personale”

Pubblichiamo un estratto del nuovo libro di Fabio Granata e Peppe NanniTrent’anni e un giorno- Le Grandi Stragi, tra Stato e Mafia” (Algra editore). Come si legge nella bella prefazione di Sebastiano Arditarappresenta un omaggio originale alla umanità di quelli che riconosciamo come eroi e la “scolpisce” con i suoi racconti sempre centrati sull’aspetto personale.” In quattordici brevi capitoli gli autori non solo ricordano fatti salienti della storia di trent’anni di lotta alla mafia e di grandi delitti e misteri (dall’assassinio di Rocco Chinnici a quelli di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) ma fanno del contesto in cui nacquero la cartina di tornasole di un male molto italiano: l’oblio. Contro questo Granata e Nanni oppongono il tentativo della comprensione del progetto dei due giudici e delle innovazioni che stavano dietro il loro operato con l’azzardo di proiettare quella loro storia nel presente. E nello stesso tempo , proprio in ragione di quella storia, robusta di etica e unica nei valori, ribadire che stare dalla parte di Falcone e Borsellino è una scelta di vita e di politica, se per politica si intende un servizio di cittadinanza e non solo di rappresentanza. Un libro eretico? Sì. E un libro che non ammette rassegnazione sui grandi misfatti d’Italia. Il libro sarà presentato dai due autori in prima nazionale a Siracusa il 10 agosto con la partecipazione di Sebastiano Ardita. Modera la giornalista Giusy Sciacca.

 


L’estratto.

Questa non è una storia di vittime. Non è una vittima Giovanni Paparcuri, l’autista del Giudice Chinnici, capo dell’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo. Certo, è stato fortunato, quella mattina del luglio 1983, quando si allontana di qualche metro dalla macchina di servizio per recuperare una radiotrasmittente, pochi istanti prima che un’autobomba in agguato sotto la casa del giudice esploda disintegrando uomini e cose, con quel fragore di sottofondo che ci accompagnerà fino alla fine del nostro racconto come una colonna sonora. Paparcuri si porta in corpo ancora oggi i numerosi frammenti metallici ma sopravvive. Lo Stato non glielo perdona, lo etichetta come inabile al servizio e lo colloca – lui che vuole continuare a combattere la Mafia – in Tribunale a spolverare archivi che nessuno consulta. Ma dopo poco lo nota uno degli eredi del giudice Chinnici, Paolo Borsellino, alla ricerca di un volontario che lo aiuti a informatizzare la squadra antimafia appena creata a Palermo da Antonio Caponnetto, che si è fatto trasferire da Firenze per continuare l’opera del collega ucciso. Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e tutti gli altri caduti in questa azione irriducibile contro tutte le Mafie, non sono “vittime” perché vittima è chi subisce, l’oggetto passivo di un’azione e non chi agisce. Sono piuttosto protagonisti consapevoli. Sono Uomini. Uomini che – come disse una volta Giulio Andreotti riferendosi all’uccisione dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, liquidatore dell’impero del faccendiere mafioso Michele Sindona – “se la sono cercata”, ovvero, al netto di quella truce ironia, hanno accettato i rischi delle loro azioni, hanno rivendicato “il diritto di avere coraggio”, come affermò il Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, poco prima di essere ucciso a Palermo, come ricorda il giornalista Paride Leporace: “Il giudice che aveva scelto di camminare sull’orlo del precipizio non voleva la scorta. Aveva detto a proposito ‘Vi sono uomini che hanno diritto di avere paura e altri che hanno il diritto del coraggio’. Non c’è dubbio che Costa avesse coraggio. A quel tempo era l’unico magistrato che aveva diritto alla scorta e all’auto blindata, ma non la voleva utilizzare per non mettere a repentaglio la vita di nessuno”. Protagonisti e non vittime: la differenza è importante per non cadere nella spirale di depressione, retorica vuota e impotenza che minaccia di travolgere chi voglia ricostruire le vicende tragiche intricate e spesso incredibili che ruotano intorno a Cosa Nostra e ai tanti segreti di Stato. “Per non dimenticare” è la scolastica ingiunzione di una retorica che neutralizza la carica energetica di biografie esemplari, confinandole nel rituale delle commemorazioni ufficiali: “Giornate della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie”, dove, anche aldilà delle intenzioni, lo spreco di maiuscole serve in fondo a nascondere che non chi non ricorda ma chi non capisce il passato è condannato a ripeterlo, isolando gli eventi dalla catena del loro accadere. Capire in quale prospettiva Falcone e Borsellino hanno agito, e prolungare la gittata del loro sguardo fino al nostro presente, significa corrispondere alle intenzioni dei protagonisti, restituendogli quel ruolo attivo nel provocare i cambiamenti che hanno incarnato, dilatando così il loro tempo e il loro operato, anziché rinchiudersi nell’indignazione sterile dello stereotipo di un ricordo che sottintende rassegnazione.

Ma dobbiamo fare un passo indietro per riepilogare, se non la storia plurisecolare della Mafia, almeno il contesto di quel decennio, preceduto dall’attentato a Pietro Scaglione nel 1971, il primo giudice ucciso da Cosa Nostra. Il giorno successivo sarebbe dovuto comparire a Milano per rendere testimonianza su uno dei grandi delitti politici nella Sicilia del Dopoguerra: la scomparsa del giornalista Mauro De Mauro. Il cronista stava a sua volta indagando sull’attentato in cui perse la vita Enrico Mattei, presidente dell’ENI, l’ente petrolifero di Stato, levatosi in volo con il suo aereo dall’isola ed esploso in aria. Dovremo abituarci, nel corso della nostra trattazione, a queste continue connessioni, all’insanguinata trama di relazioni che mettono in rete, attraverso la Sicilia ma sempre con rilevanza nazionale, le vicende più drammaticamente significative dell’Italia contemporanea. Con l’omicidio Scaglione si inaugura un copione che andrà ripetutamente in scena negli anni Ottanta e Novanta e che Paolo Borsellino aveva perfettamente descritto: “La mafia condusse una campagna di eliminazione sistematica degli investigatori che intuirono qualcosa. Le cosche sapevano che erano isolati, che dietro di loro non c’era lo Stato e che la loro morte avrebbe ritardato le scoperte. Accadde così per Scaglione […]”.E accadde così per i magistrati Terranova, Costa, Ciaccio Montalto, Chinnici, Saetta, Giacomelli e Livatino. Cesare Terranova può essere considerato un precursore in tema di grandi processi, avendo rinviato a giudizio anche più di cento imputati in un unico procedimento, nella consapevolezza che per fotografare una realtà mafiosa occorre inquadrare un ambiente e uno spaccato sociale, facendo emergere un tessuto di relazioni intimidatorie e associative. Sarebbe inconcepibile un mafioso isolato. Terranova sottolinea spesso questo aspetto: “Mettendo da parte fantasie e romanticherie del passato, la mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo o un termine letterario ma essenzialmente criminalità organizzata [i cui delitti] per le modalità e i mezzi dell’azione e per l’abituale silenzio delle vittime, non destano quasi mai un particolare allarme sociale né attirano, in maniera energica, l’attenzione della Autorità”. Siamo negli anni Sessanta e Settanta, in un’Italia in cui ancora qualcuno si domanda se la Mafia esista davvero o sia solo un fenomeno folcloristico, coppola e lupara, espressione dell’arretratezza civile che un pregiudizio etnico imputa alla Sicilia. O, peggio, dove si contrabbanda l’immagine dell’‘Uomo d’onore’, orgogliosamente coraggioso e individualista, pronto a reagire all’offesa subita. Terranova stronca questo mito illusorio […] Terminato il mandato parlamentare, Terranova, uomo di trincea, chiede e ottiene di tornare a occuparsi di indagini a Palermo. Addolora ma non stupisce che la Mafia lo uccida assieme al suo fidato Lenin Mancuso, tre settimane dopo. Addolora ma non stupisce che la condanna dei Corleonesi per l’attentato diventi definitiva trentacinque anni dopo. Il tempo è politica: la Mafia sa agire con rapidità, quando le circostanze lo esigono. Altri interessi, intrecciati con le istituzioni, sanno che le verità scomode sono dirompenti solo se proclamate con efficace tempismo e che basta rimandare il momento dell’emersione ufficiale dei fatti per privarli di ogni effetto politico. Anche quando le evidenze accusatorie erano risuonate, lampanti, in Parlamento.

Redazione

Redazione su Barbadillo.it

Exit mobile version