Giornale di Bordo. Destra e sinistra come appendici della mascherina

La conflittualità odierna è di natura a pensarci bene molto diversa, ma la tendenza a ideologizzare scelte e comportamenti presenta singolari analogie con un passato da non rimpiangere. Questa volta, discriminante fra buoni e cattivi è divenuto l’uso della mascherina

Mascherine in spiaggia?
Mascherine in spiaggia?

Una fra le più inquietanti analogie fra il decennio apertosi due anni fa con la pandemia e gli anni Settanta – che formidabili non furono, se non nell’accezione latina del termine, in quanto terribili – è, insieme alla ripresa in grande stile dell’inflazione, il ritorno alla tendenza a valutare gli orientamenti politici in base a comportamenti di natura strettamente personale. Mezzo secolo fa, si poteva essere giudicati “fasci” o “zecche” per la scelta di un capo di vestiario, di un’automobile, di un locale in cui ammazzare il tempo, o persino in base a consuetudini igieniche (la doccia fu giudicata di sinistra, il bagno settimanale di destra).

Ci sarebbe da ridere, e infatti Gaber prese quella polarizzazione a spunto per una delle sue canzoni; purtroppo però quello che sembrava un banale gioco di società divenne in certi casi una tragedia. Ci fu chi si trovò sprangato a morte per aver indossato l’abito sbagliato nel posto e nel momento sbagliati.

La sinistra ebbe i suoi feticci, come il tristissimo eskimo o la Renault 4, che invece era un’automobile comodissima, che per l’assenza della cloche a terra rendeva più pratico l’amore in macchina e a parità di prezzo assicurava prestazioni e volumi maggiori delle nostre utilitarie. Inconsapevole del retroterra ideologico, ne comprai una da un dipendente Renault prima di partire per il servizio militare; scoprii tardivamente il significato politico attribuito alla mia scelta automobilistica, ma molti anni dopo appresi con immensa soddisfazione che la R4 era l’auto con cui Paolo Balbo, figlio del maresciallo dell’aria Italo e tutt’altro che di sinistra, si recava ogni anno con la moglie nella superchic località balneare di Punta Ala, fra Porsche e Mercedes, non senza, forse, una punta di snobismo.

La conflittualità odierna è di natura a pensarci bene molto diversa, ma la tendenza a ideologizzare scelte e comportamenti presenta singolari analogie con un passato da non rimpiangere. Questa volta, discriminante fra buoni e cattivi è divenuto l’uso della mascherina. La libertà di non indossarla tranne rare eccezioni (a volte senz’altro pesanti: basti pensare all’obbligo della Fp2 per i treni) è stato in genere accolto con un sospiro di sollievo. Eppure non mancano quelli che io chiamo gli ultimi “giapponesi”, che continuano a ostentarla, magari all’aperto, dove è assolutamente inutile, in bicicletta o sul monopattino, o in macchina, dove magari viaggiano da soli. Mi capita a volte di scorgere sui loro volti un atteggiamento di superiorità morale, così come potevo cogliere un sentimento di sfida in chi procedeva a volto scoperto nei mesi del lockdown (espressione che in un primo tempo avevo frettolosamente tradotto con un maccheronico “chiudi-mongolo”).

Fra i giapponesi della mascherina ci sono persone rispettabilissime, capaci di sottoporsi a sofferenze inaudite per la paura di contagiare i nipotini, o di intervenire a convegni col volto protetto da ben due Fp2, un po’ come il doppio profilattico che la vox populi consigliava di utilizzare a Viareggio con le battone del viale dei Tigli. E magari di rinunciare al buffet o alla cena offerti dagli organizzatori per timore del contagio. Ci sono anche sesquipedali imbecilli, innamorati di quei formicai umani che sono le megalopoli dell’estremo Oriente, felicissimi, se l’obbligo tornasse in vigore, di denunciare al tribunale del poppolo (con almeno tre P) chi contravviene ai diktat del ministero della salute (pubblica). Non diversamente nell’ultima guerra al tempo dell’oscuramento  si comportavano i militi dell’Unpa. In ogni italiano alberga la vocazione del capofabbricato.

Detto questo, devo confessare di provare perplessità nei confronti di chi manifesta impazienza per i nostalgici della mascherina. Chi la porta in auto può condividere il veicolo con altre persone, e si sa bene che un angusto abitacolo, sigillato per l’aria condizionata, è un ottimo collettore di virus. Chi l’indossa all’aperto, magari in aperta campagna, svolgendo attività fisica, o in bicicletta, può darsi che soffra di allergia e cerchi di filtrare i pollici. E poi, soprattutto, credevo che uno degli aspetti positivi della fine delle ideologie  fosse la convinzione che non valga la pena di spaccarsi la testa per dei simboli e che ciascuno, nel rispetto del buon gusto e del buon senso, sia libero di coprirsi e di scoprirsi come crede.

Per tale motivo questo clima di guerra civile fra pro e novax mi lascia perplesso, perché (anche questa è un’avvelenata eredità degli anni Settanta) la contrapposizione fra opposte tifoserie finisce per favorire chi dell’antagonismo fra tesi diverse ha fatto una bottega. È avvenuto fra i paladini dell’antifascismo e gli irriducibili del neofascismo, che hanno finito per lucrare rendite elettorali e seggi in parlamento a spese di chi, per difendere un passato di cui non era responsabile, ci ha rimesso spesso la carriera, gli affetti e a volte la vita. E non vorrei che oggi fra i più accesi no-vax, no mask, no pass serpeggiasse la segreta speranza che il prossimo ottobre conduca a nuove restrizioni, magari per i refrattari al vaccino (lo stesso potrebbe avvenire per i loro avversari). Perdere la propria ragione sociale, come temeva il Movimento sociale quando Craxi metteva in cantina l’antifascismo e Donna Rachele parlava bene di Pannella, è uno dei peggiori rischi per un movimento politico.

@barbadilloit

Enrico Nistri

Enrico Nistri su Barbadillo.it

Exit mobile version