L’altro 25 Aprile. Il racconto patriottico di Enrico de Boccard sulla guerra civile

"Fondovalle presidio" è tratto da "Le donne non ci vogliono più bene", raccolta di novelle dell'estroso "aristocratico avventuriero"

La bandiera nazionale, il tricolore

I ragazzi della Rsi

Riproponiamo in occasione del 25 aprile Fondovalle presidio, uno dei racconti di Enrico de Boccard (1921 – 1988) scritto dalla parte dei vinti,  che dà anche la misura dello stile vivace e scorrevole dell’autore. Il racconto fa parte di un volume pubblicato nel novembre del 1950 dalla casa editrice L’arnia col titolo Donne e mitra, che comprendeva un romanzo breve Fine del diario storico e cinque racconti, tutti incentrati sul tema della guerra civile. Successivamente, anche grazie all’interessamento del giornalista e scrittore Manlio Triggiani, fu ripubblicato con una partecipe ed esauriente prefazione di Gianfranco de Turris (che dell’autore fu amico) nel dicembre 1995 dalla casa editrice Sveva col titolo senz’altro più azzeccato Le donne non ci vogliono più bene, che rimanda al primo verso di una  canzone dei militi della Repubblica sociale italiana, che meglio rievoca lo spirito irriverente e anticonformista di tanti giovani che militarono nella RSI.
Ma chi è Enrico de Boccard? Appartenente ad una famiglia di nobili origini, di formazione culturale francese fu, come scrive de Turris, «un aristocratico avventuriero», un «uomo imprevedibile ed estroso». Basti pensare che collaborò nel 1967 a “Playmen”, una delle prime riviste erotiche pubblicate in Italia, dove peraltro apparve una famosa intervista al filosofo tradizionalista Julius Evola su problemi d’attualità, dalla contestazione alla sessualità. «Enrico – scrive de Turris – era sempre stato un vero personaggio negli ambienti della destra, fuori da ogni schema e da ogni regola acquisita, anche se le sue idee non le mutò veramente mai». Ben potrebbe figurare tra gli autori del “romanticismo fascista” accanto a Drieu, Brasillach, Céline. Lui, nobile di nascita, «per spirito avventuroso e senso della dignità» scelse la Repubblica e non la Monarchia, e nella sua vita fu, allora e sempre, contestatore di quella rispettabilità borghese che si regge sul denaro, sulla vita comoda e sulla reputazione.
I testi di de Boccard sono senz’altro tra i più rappresentativi della letteratura dei vinti, non solo per autenticità e freschezza, perché scritti ”a caldo”, pochi anni dopo gli avvenimenti narrati, ma anche per il loro indubbio valore letterario: «alla guerra Enrico de Boccard dedica delle bellissime pagine letterariamente parlando, delle pagine anche estremamente efficaci dal punto di vista emotivo, dove accanto a descrizioni oggettive degli avvenimenti inserisce particolari, commenti, incisi, riflessioni, sensazioni soggettive, quelle “dalla parte dei vinti”» (de Turris).
Di fronte al sanguinoso dramma che si abbatté su l’Italia tra il 1943 e il 1945, Enrico de Boccard, non ha mai parole d’odio. A differenza dei tanti romanzi “partigiani” Enrico de Boccard nei suoi testi ha accomunato sotto “la curva del destino” le due parti in lotta nella guerra civile, purché in buona fede, purché si avesse, come scrive in uno dei suoi racconti, «qualcosa dentro di sé», dando conto dello scontro tra due opposte ragioni: l’onore e la libertà. Non si tratta, come egli scrive nell’Avvertimento al lettore di un libro “politico” o di memorie ma di «fermare le caratteristiche di una certa atmosfera». Per questo i suoi racconti e il suo romanzo sono ancora vivi e meritano di non finire nell’oblio o nella damnatio memoriae.
Sandro Marano


Fondovalle Presidio
di Enrico de Boccard

Le due macchine correvano sulla statale. Il tramonto invernale si posava sulla vallata dando un senso di tristezza ai contorni indefiniti dei monti. Il tenente D osservava la strada, il fiume che scorreva a sinistra sfrangiando masse d’acqua sulle grosse rupi che ne frenavano la corrente, i monti che chiudevano la valle, le loro schiene nude ricoperte di neve, le case abbarbicate più in basso. Innanzi a lui il collega T guidava, attento a non perdere la distanza con il camioncino che li precedeva. Le due ragazze cantavano, i capelli al vento: ai suoi piedi era posato un mitragliatore, con la sicurezza tolta. Imboccarono un ponticello, entrarono in paese. Una lunga officina fumava proprio all’ingresso. Molti operai stavano uscendo dai cancelli, guardarono le macchine con occhi che volevano essere indifferenti. Traversarono l’abitato seguiti ovunque da quello sguardo. Su di un muro, a caratteri un po’ sbiaditi, con vernice bianca era scritto: “Viva l’Esercito Democratico Popolare”. La strada saliva ora con una discreta pendenza. Una baracca di legno era in cima alla salita, dei cavalli di Frisia sbarravano la strada, lasciando uno stretto passaggio appena sufficiente per una macchina. Da una postazione con sacchetti di sabbia faceva capolino una mitragliatrice. Un soldato con una paletta da segnalazione fece un cenno. Il camioncino accostò a destra e si fermò, ne scese il capitano R. Il soldato, rispettosamente, ma con minuzia cominciò ad osservare ed esaminare i documenti che quello gli porgeva. Intanto dalla porta della baracca erano spuntati altri due soldati con il mitragliatore imbracciato. Scorgendo il capitano abbassarono le canne verso terra, ma rimasero ad osservare, immobili. Un cartello a destra della strada ammoniva in lettere nerastre: “Attenzione bande! Procedere in colonna”.
Il tenente D guardava la ragazza che gli sedeva vicino, stretta tra latte di benzina, uno zainetto pieno di bombe a mano, la grossa cartella di cuoio della corrispondenza ufficiale. Guardava lei e la sorella bionda, seduta presso il collega che guidava. Guardava ora la strada, ora il cartello ammonitore. E nonostante tutto, trovava che questa vita in fondo vale proprio la pena di viverla. Avevan dato loro un passaggio, uscendo dalla grande città. Erano tutte e due lì, vicino al posto di blocco, agitando le mani alle macchine che passavano, ma nessuna macchina si recava sino ad A***. Lui e il collega sì, che dovevano andarci ad A***. “Per importanti motivi di servizio” specificava un foglio pieno di bolli e firme, e portante l’intestazione di un comando di grande unità. Ad A*** generalmente poche persone avevano voglia di recarsi di propria iniziativa e , di quei pochi, pochissimi erano quelli che, tornando, non avessero da narrare qualche storia avventurosa. Ogni tanto capitavano dei matti, come lui e il collega, che chiedevano semplicemente, che mandassero loro ad A***. Gente che considerava quella strana guerra come un gioco meraviglioso, cui dispiaceva non potercisi mettere in in mezzo ogni volta che l’emozione era maggiore. Una partita a poker era: buio, contro buio, e sul piatto la possibilità di beccarsi un bel po’ di proiettili o peggio se si cadeva vivi in mano a “quegli altri”; colore… scala reale e se tutto andava bene, la stessa sensazione, moltiplicata per mille, che si prova chiudendo un poker d’assi, scontrandosi con un poker di K e sul piatto c’è un mucchio di gettoni da non poterli contare. Naturalmente alla base di tutto questo c’era come la pensavano e quella idea per cui ogni giorno rischiavano, ma, dato che erano in ballo, volevano ballare bene, divertirsi ed avere buona musica.
Le ragazze rappresentavano nella partita di quel giorno una coppia di Donne, ma ancora non si poteva prevedere come sarebbe finta la mano. Certo erano carine, e là, al posto di blocco, il collega che non faceva mai, di solito, salire nessuno sulla macchina, le aveva guardate un po’, aveva abbozzato un sorriso e aprendo lo sportello aveva detto: “Vanno ad A***? Salgano pure, signorine”.
Ora era la ragazza che sorrideva, ravviandosi i capelli e mettendosi un po’ di cipria. La cipria aveva un buon profumo, anche la ragazza aveva un buon profumo. La ragazza bionda stava fumando in quel momento una sigaretta che le aveva offerto quello che guidava.
Il soldato agitò la paletta. Il camioncino si infilò tra gli ostacoli come in una gincana. Era stata una bella fortuna incontrare il capitano R con la macchina e tre uomini che andava pure lui ad A*** dove era stato nominato comandante del Presidio. Forse se non ci fosse stato R non avrebbero fatto salire le ragazze, ma così, in sei, ora si sarebbe andati su più allegri. Il soldato fece cenno. Ora toccava a loro. Piano piano transitarono attraverso il blocco, si fermarono innanzi alla baracca. Il collega che guidava mostrò i documenti. “Ufficio I A””. Le signorine? “sono con noi”. Il soldato disse loro di proseguire. “buon viaggio”, aggiunse, con un’ombra di sorriso, così accennato da non infrangere la disciplina. Ripartirono. Il camioncino del capitano R i precedeva sempre. Ormai era quasi notte, cominciava a far veramente freddo; istintivamente, D e la ragazza si strinsero più vicino. Andavano ora lungo un rettifilo parallelo al fiume. Quello che guidava e la bionda si erano avvicinai anche loro. Era bello andare, pensava D, andare nella notte, con una ragazza vicino, e nell’aria la presenza invisibile di una minaccia. Chiacchierava con lei, saltando di palo in frasca, , così, tanto per parlare, ma dove andavano a finire era chiaro, cinema, teatro, libri, ricordi anni incredibilmente lontani, di anni incredibilmente tranquilli in cui c’era di tutto, splendide torte, sigarette a josa, spiagge affollate, montagne in cui non si faceva la guerra ma scalate, o si scendeva con gli sci lungo pendii sempre più ripidi, in attesa di cantare la sera tutti stretti intorno al gran fuoco dell’albergo rifugio.
Il camioncino frenò di colpo con lo stridore acuto degli idraulici, sbandando un po’ a sinistra. Il capitano R ed i suoi uomini si buttarono giù dalla macchina, e lunghi distesi ne fossato laterale alla strada, cominciarono a sparare come matti. T inchiodò pure lui la macchina. Senza badare alle ragazze che chiedevano concitate cosa stessa succedendo, D imbracciò il mitragliatore, aprì lo sportello e corse verso il capitano. Le sue orecchie avvertirono un suono sibilante sgradevolmente vicino. Si distese per terra, la testa riparata da un paracarro, puntò l’arma nella direzione in cui vedeva sparare gli altri, premette il grilletto. Sentì il mitragliatore sussultare nelle sue mani, diventare una cosa viva, mentre sottili lingue di fuoco uscivano ritmicamente dallo spegni-fiamme e i bossoli fumidi sbatacchiavano qua e là. Nell’oscurità non vedeva nulla innanzi a sé, soloni costone della montagna ricoperto di alberi e il cielo confuso. Sparava così, a casaccio, solo ad un tratto scorse tra gli alberi una fiamma giallastra e di nuovo vicino a lui passò un sibilo. Mirò in quella direzione, sgranò una lunga raffica. Le orecchie gli rintronavano, un cigolio fastidioso si annidò nel suo cranio. Un improvviso silenzio lo sorprese, pur mentre continuava a premere il grilletto. Diede un’occhiata all’arma: era inceppata, divenuta di colpo un’inutile massa di legno e di metallo. Con un senso di rabbia lo posò per terra, senza riguardi; l’arma diede un suono metallico.
Il capitano R , lui, continuava a sparare dal ciglio della strada, mentre i suoi uomini strisciavano per i campi in direzione degli alberi. In mezzo a questi si vide ad un tratto una gran fiammata, cui seguì la piena detonazione d’una bomba a mano. Altre fiammate, altre detonazioni, a D parve di sentire un grido, poi tutto tacque. Raggiunse il captano R , questi stava intorno alla macchina, intento a rimuovere un gran trave di legno, gettato di sbieco sulla strada.
“Fortuna che me ne sono accorto”, disse a D. “Del resto hai visto? Basta sparargli addosso senza riguardi e se la squagliano che è una bellezza. Beh, ora andiamo. Speriamo che non ci rompano ulteriormente i “. Risalì in macchina, mentre due dei suoi uomini si sedevano uno per lato, sui parafanghi tra il cofano e i fanali.
Il tenete D è ora di nuovo vicino alla ragazza, tra latte di benzina e la grossa cartella di cuoio della corrispondenza ufficiale. La ragazza (erano un po’ emozionate tutte e due, lei e la sorella, ma in fondo aveva creduto che si sarebbero spaventate di più) lo guardò improvvisamente seria. Gli chiese se fosse fidanzato.
“Perché?” le ribatté D.
“Chissà come sta in pena quella poveretta sapendo che fate questa vita”.
“No, non sono fidanzato”, rispose lui. E forse mentiva, forse no, era questione di punti di vista. L prese una mano così senza dir niente, tanto lì ci dovevano arrivare una volta o l’altra, perciò tanto valeva incominciare subito. Sentì fremere nella sua, impercettibilmente, la mano di lei, poi essa si strinse maggiormente, e mentre la macchina attaccava una rapida salita lui cercò di baciarla, ma lei con un semplice movimento del capo gli sfuggì, poi si volse a guardarlo con una espressione strana.
Piano gli sussurrò: “No, non qui”.
Ormai era notte completa, lo scrosciare del fiume, il cupo grido delle civette dava un aspetto di ballata romantica al paesaggio. Grandi nuvole rendevano intermittente il chiarore della luna, improvvisi in cima ad un roccione, apparvero i resti nerastri dell’antico castello di San***.
“Mancano solo gli spettri a danzare come nella fantasmagoria di Goethe” disse, scherzando, D alla ragazza.
T aveva acceso la luce del quadro, una riposante luminescenza verde-azzurrognola si diffondeva per la macchina, suggerendo l’immagine di una comoda stanza ben riscaldata, morbide poltrone, la radio in sordina, su di un tavolo vicino una scatola di sigarette, una bottiglia di liquore, e in mano un buon libro da leggere. Prosa o poesia? Poesia forse sarebbe stato meglio, inseguire sui muri i propri stati d’animo sotto la lieve eccitazione dei versi. Si domandò ad un tratto perché egli dovesse sempre pensare, sempre perdersi dietro a fantasticherie che lo portavano lontano dall’obiettivo principale. La verità era che non osava affrontarlo, prenderlo di petto,, ma domani… c’era tempo domani. Forse no, domani non ci sarebbe stato il tempo ma cosa importava, in fondo? Era più piacevole sognare ad occhi aperti, fissando la blanda luce verde-azzurrognola del quadro.
La ragazza ora teneva appoggiata la testa sulla sua spalla, come al cinematografo, teneva gli occhi socchiusi, ma a un tratto gli chiese: “A che pensi?” e lui avrebbe dovuto dirle “Alla luce del cruscotto”, ma non disse nulla e invece le passò un braccio intorno alla vita e la baciò. Questa volta lei non si ritrasse, anzi rispose al bacio in un modo che lo stupì.
Luci rade, case, la strada era sbarrata da bassi muretti di cemento innanzi ai quali ardeva un lume rosso. Nuovo controllo di documenti. Erano a San***, l’ultimo presidio prima di A*** che distava ancora una quindicina di chilometri. […]
T tornò in quel momento. “Guarda che per stasera non si prosegue più per A***”, disse. “Mi dispiace per voi, signorine (la sorella maggiore si era avvicinata ad ascoltare) ma il capitano B, che comanda il presidio, mi ha sconsigliato nel modo più assoluto di continuare. Si ripartirà domattina con una scorta. Sicché ora andiamo a parcare la macchina, poi a mangiare. Ci ha invitato tutti, pure le signorine”. E sorrise. Le ragazze proruppero in esclamazioni di disappunto per la sosta impreveduta (“I genitori le aspettavano in serata” “chissà cosa avrebbero pensato” “specie la mamma che vedeva sempre pericoli”) o di timidezza più o meno genuina per l’invito a pranzo (“così vestite, e tutti quegli ufficiali, e qui, e là”). Ma D sentiva che la mano di lei stringeva a lungo carezzevolmente la sua.
La mensa si trovava nella sala a pian terreno di un alberghetto requisito, dove aveva sede il comando. […]
Caffè, sigarette, un bicchierino. Era proprio quel che ci voleva, dopo un viaggio del genere. Il collega stava corteggiando la sorella, la bionda, il dialogo scoppiettava, ridevano insieme agli altri. D però era distratto, desiderava quella ragazza, non vedeva il momento che succedesse. Ritornare per un momento ad essere lui, solo lui, stare con lei nella notte, senza pensare più a nulla, né a lei, né alla vita, né alla morte, né a quelle lettere che doveva bruciare e gliene mancava il coraggio.
Il capitano B propose una partita. Sul tavolo sparecchiato erano ora gettoni e mazzi di carte: “Un baccarà?”.
“Bene”. Cominciarono a giocare, lei non sapeva, lui la prese in società, le insegnava, puntavano. Cominciavano a posarsi sul tavolo biglietti di banca. Il suo collega T insieme alla bionda si era messo a giocar forte, nove, otto, cista, l’azzardo contro cui si scagliava invano un avviso maculato appeso al muro “Tabella dei giochi proibiti”. Proibiti… pensava D, tutta la vita è un immenso gioco d’azzardo. Bisognerebbe proibire la vita, oppure obbligare il futuro a giocare a carte scoperte… un po’ difficile. Poi ebbe rabbia di sé stesso: possibile che dovesse pensare sempre idiozie di quel genere, tipo massime per cioccolatini?
Una forte detonazione fece tremare i vetri. Le ragazze sobbalzarono. “Niente, niente – le tranquillizzò il capitano B – è la solita di tutte le sere. Fan saltare un po’ di binario sulla linea, noi domani la ripariamo, domani sera ricominciano in un altro punto, e così via, finché non andremo a snidarli sul serio”. […]
Rientrò nella sala che il gioco si stava smorzando. Solo i capitani e due ufficiali continuavano imperturbabili; ed R aveva un bel mucchio di gettoni innanzi a sé. D ripensò alla irreale partita che egli e T stavano giocando nel pomeriggio; erano partiti con una coppia di Donne.
Lei era ora su un divano, vicino era quell’ufficiale che voleva attaccare, gli altri facevano crocchio intorno e cantavano tutti a bassa voce una canzone; ma lei muoveva appena le labbra. Come lo vide entrare gli fece cenno con il capo. Raggiunse il gruppetto, si unì macchinalmente al coro, sbirciò in un angolo dietro una sempre verde, il collega T e la bionda, che si stavano baciando. In mano avevano bicchierini di cognac.
Un grosso orologio a pendolo batté le undici. Il capitano R si alzò dal tavolo mentre gli ufficiali troncavano la canzone. Chiamò D e T, “Prego tenenti”. Insieme al capitano entrarono nella stanza attigua, quella ove entrava il fascio dei cavi telefonici: una scrivania di sbieco, carte topografiche inchiodate al muro, in un angolo il telefono con un soldato seduto vicino all’apparecchio su di una cassetta di munizioni. Da un attaccapanni pendeva un elmetto.
“Signori ufficiali, attenti!” ordinò il capitano R e sull’attenti egli stesso si pose in riga con loro. Il capitano B con un cenno fece capir loro di star comodi. Era un bel tipo di “uomo di guerra”. Capelli e baffoni rossicci, rinserrato in una divisa mimetica, su cui mollemente scendeva il lungo pellicciotto d’agnello, una grossa pistola automatica fissata con una cinghietta di cuoio al cinturino. Muoveva le mani nel gestire come se desse colpi all’aria con il taglio di un pugnale. Parlava lentamente, scandendo, con un leggero accenno. Erano capitati in un momento critico. Si aveva motivo di ritenere imminente un’azione in grande stile da parte dei partigiani. Naturalmente ciò non doveva uscire da quelle pareti (e fissò con insistenza De T). Questi non mossero gli occhi dai suoi, gli uomini dell’Ufficio I A non erano soliti lasciarsi sfuggire nulla di bocca e la più bella gonnella non li incantava su argomenti di servizio. Probabilmente dopo la mezzanotte ci sarebbe da stare attenti, forse avrebbe avuto bisogno di loro, si tenessero perciò pronti ad ogni evenienza. Circa l’alloggi, era spiacente non poterli sistemare meglio, bisognava arrangiarsi, comunque per il capitano c’era una stanza, idem per le signorine. Loro due (e li fissò di nuovo con espressione carica di sottintesi) si sarebbero messi a posto con un paio di brandine in fondo ad un corridoio. Era sicuro che si sarebbero trovati benissimo (e ridacchiò brevemente). […]nella sala in cui era rimasta accesa una lampada rimasero loro soli, il capitano R, le ragazze, e quell’ufficiale che cercava d’attaccare, quello di servizio al comando. Ci fu un stante di silenzio, mentre nel caminetto le fiamme danzavano dando un senso di benessere e di protezione.
“Signor capitano, se permettete, v’accompagno alla vostra stanza – disse quello di servizio – intanto faccio preparare per le signorine e per voi altri due”. Uscirono e dinanzi alle fiamme danzanti, rimasero solo loro, una coppia, e poi un’altra in quella partita, che stava per chiudersi.
La bionda riaccese la radio; spostò su e giù l’indice della sintonia in un groviglio di musiche e parole. Per una frazione di secondo una canzone in una lingua straniera proruppe. Era una voce di donna su di un motivo lento che s’impadroniva di chi stava ascoltando, voce di donna che sembrava una lamentazione. D pregò la ragazza di centrare la stazione; conosceva quella lingua, non bene, ma sufficientemente, da capirla. Gli sembrava di aver già udito una volta quella canzone, ma quando? […]
“L’erba e il vento cicatrizzeranno tutti i crateri delle bombe
Le foglie novelle nasconderanno le ferite dell’albero
La primavera canterà l’amoroso appello degli esseri,
Gradatamente matureranno tutti i frutti dell’albero,
Ma che cosa vi donerà la fine di questa guerra?”
Il ritornello della canzone che veniva al di là delle cose a loro quattro, un uomo e una donna, una donna e un uomo saturava tutta la stanza e le loro anime. Veniva, al di là delle cose, da un altro paese in guerra. Anche laggiù si moriva, si moriva come qui, lunghe colonne di giornali listate di nero, ma qui era diverso, ci si ammazzava senza pietà tra gente di uno stesso popolo, di uno stesso sangue e della stessa lingua. E i morti giacevano gli uni accanto agli altri, negli stessi cimiteri, amici e nemici, non riconciliati dalla sorte comune, mentre per vendicarli divampava l’odio tra i vivi.
La luminescenza verde azzurrognola non diceva più, ora, la tiepida stanza, l’illusione di una calma felicità, ma quattro anime pervase da una sofferenza che per ognuno aveva un motivo diverso ma che in fondo era uguale. La canzone finì con un accenno guerriero di tromba che sembrava un singulto.
La ragazza gli lasciò bruscamente il braccio. “Ma che cosa vi donerà la fine di questa guerra?” gli disse in quella lingua straniera, e uscì dalla stanza insieme alla sorella e a T.
Vittorie, grandi parate trionfali, pennoni su cui sventolavano altere bandiere, rotolare maestoso della artiglieria sull’asfalto, tutto questo, sì, ma non è tutto – pensava lui – il sentimento del dovere compiuto senza misurare il proprio sacrificio, anche quando era doloroso eseguirlo, questo sì, ma non è tutto, oppure, atroce come una febbre la sconfitta, una grigia alba che segna il principio di una sofferenza senza speranza, la possibilità di morire senza armi nel pugno, tra il ludibrio degli avversari trionfanti, la rovina di tutto ciò per cui si è lottato facendo soffrire sé stessi e gli altri, questo sì, ma non è tutto. “Cosa vi donerà la fine di questa guerra?”. Probabilmente ne usciremo smarriti al mondo, al vecchio che ci siamo lasciati alle spalle e che per noi sarà già superato, al nuovo, quello che è sorto, perché saremo superati noi. Tutta la nostra vera vita si sarà svolta tra due date segnate sui libri di storia. Ma forse ci resterà l’istinto di cercare, di di ritrovare qualcosa che ci sembra di aver posseduto, e che forse è illusione, ma per questo daremo il sangue che ci è rimasto.
Era disteso sotto la coperta, con la gamba sfiorava il copro nudo di lei. Nella camera abbastanza ampia, un tramezzo di teli da tenda separava i due letti, trasformando così il tutto in due stanzette, sul tipo del dormitorio di un collegio. Accanto al letto era un armadio a specchi, una catasta di cassette vuote da munizioni su cui erano sparsi alcuni libri e un portacenere vuoto di porcellana. Dal corridoio trapelava una luce giallastra attraverso le fessure della porta. Dal tramezzo veniva un bisbigliare confuso (T e la bionda sorella di lei).
La ragazza giaceva con gli occhi socchiusi, i capelli sparsi sul guanciale, respirando lievemente. D le guardava la gola così morbida e indifesa, in un soffio ella mormorò qualcosa.
Tutto era stato così rapido, quel presentimento che fin dal primo istante avevano avvertito, di doverci arrivare, aveva semplificato ogni cosa, aveva dato a tutti e due una furia che veramente li aveva strappati per qualche minuto a tutta la loro vita reale, a tutti gli oggetti circostanti, immergendoli in una sensazione bruciante come un bianco lampo che avesse percorsi, incenerendoli, i loro cervelli. Poi era venuta improvvisa con il normale riprendere del respiro una calma che era ancora fuori dalle loro volontà, in cui l’eccitazione nervosa si contorceva ancora, una calma che partendo da loro si irradiava all’infinito, mentre, momentaneamente scostati contemplavano inerti, solo con le mani unite, il tenue fascio di luce che dalla porta filtrava, perdendosi sul soffitto.
Riaffiorando alla realtà, avvertirono una secca raffica lontana, il bisbigliare di T e della sorella, un passo per il corridoio. […]

Tutte le postazioni sparavano. Altre detonazioni più cupe venivano dalla linea ferroviaria. Per l’edificio si udivano passi, una voce che chiamava: “Sergente L! Oh, sergente L!”.
D balzò dal letto, si vestì rapidamente, la ragazza forse dormiva, ma mentre lui si affibbiava il cinturone lo chiamò: “Che fai? Che succede?” e si mise a sedere sul letto, mentre T uscendo dal tramezzo, esclamava: “Sembra che ci siamo. Dove hai messo le bombe a mano?”.
D aveva acceso la luce, la ragazza si tirò le lenzuola sul petto, guardandoli con gli occhi ora veramente sbarrati, in atto di interrogazione. Una detonazione risuonò più vicina, i partigiani stavano sparando con un mortaio su l’edificio. Le ragazze urlarono.
“State calme, – proruppe D – Buttatevi a terra”. E spense la luce. T uscì nel corridoio, lasciando l’uscio aperto a metà. “Non andar via”, insisteva la ragazza a D, “non andar via. Ti può capitare qualcosa”. Lui si avvicinò, si sedette sul letto, le diede un piccolo bacio. “Stai tranquilla, buona, così. Non preoccuparti. Non c’è nessun pericolo imminente”.
Ma lei si irrigidì tutta, poi, con voce stridula che non sembrava quasi più la sua, cominciò a parlare: “ma perché sparate, ma perché questa guerra, sempre questa guerra, morti ogni giorno, morti e dolore, ma perché, ma perché… E siete voi, voi che lo volete, ma fatela finita dunque…” e proruppe in un pianto soffocato, infantile, mentre la sorella la raggiungeva.
Rimasero così, tutte e due, vicine, mentre D usciva senza rispondere, e scendeva di corsa le scalene. Abbasso trovò T con il capitano R “Stan combattendo forte al quarto caposaldo, vicino alle rovine del castello, ma sembra vada bene tutto”. […]

Sono nuovamente insieme, la ragazza e D, coricati l’uno accanto all’altra, mentre la notte ora tace completamente. Ma lei non è più come prima sembra staccata da sé stessa, agire per riflessi, come umilmente silenziosa dopo il suo scatto isterico. Cerca di farsi piccina, di farsi perdonare da D. Perdonare, ma cosa? Lui non ci pensa nemmeno più. Era logica, naturale reazione in una donna. M lei è fuori di quel suo corpo, che, sotto le lenzuola, è vicino a quello di lui? “Senti – gli dice – senti, devo spiegarti una cosa…”. (Lui ora la tiene stretta, in questo momento breve è sincero con lei, per pochi istanti nel tempo essa è sua, gelosamente sua, e la difende e protegge contro ogni cosa, anche contro sé stessa). Non mi devi giudicare male per questo che abbiamo fatto così. Appena ti ho visto ho capito che sarebbe successo. Non mi capita spesso., ma quando mi viene così sento che non ci posso far niente… Senti, prima ho detto… quelle cose sulla guerra. (Ora la sua mano di nuovo gli afferrava il braccio, come quando la radio diffondeva quella canzone). “Mio fratello, mio fratello è con quegli altri, forse c’era anche lui a sparare… E lui poteva uccidere te, e tu uccidere lui… Uccidere, sono stanca di veder uccidere, di vivere sempre con l’ansia in petto, di tenermi sempre pronto un abito di lutto”. (lui le carezza piano un ricciolo di capelli e ascolta). “Ma perché ti dico così, tanto è inutile, tu hai la tua idea e lui ha la sua. Ma perché esistono le idee?”. (E D ascolta e pensa a quella piccola luce verde-azzurrognola e perché esistono le idee, e perché si fa la guerra. Ma cosa può dirle, tutto sarebbe inutile e assurdo, gli uomini credono nelle loro idee al di sopra del loro amore, le donne scelgono l’idea del loro amore, o forse scelgono soltanto questo e per loro le idee contano relativamente. Ma non serve a nulla dirle tutte queste cose e altre ancora, non cambierebbe nulla).
La ragazza si era calmata. Nelle tenebre, rotte appena dal filo giallastro di luce proveniente dal corridoio, essi attesero l‘alba. E lui capì che loro due, in quel momento, riassumevano una tragedia. Ma loro non potevano farci niente.

Le ragazze si erano vestite ed erano pronte a partire. Il viso rifatto, odoroso di cipria, l’esile, indifeso collo proteso verso di lui con un pallido sorriso, essa si appoggiava alla macchina, mentre T era intento a fare il pieno di benzina. Sullo spiazzo antistante al comando due autocarri sostavano con il motore acceso. Su uno di essi erano già saliti gli uomini di scorta, ora intenti a piazzare una mitragliatrice leggera sulla cabina. L’altro era vuoto. Il capitano R imprecava con la batteria del suo camioncino. Nella chiara giornata i monti apparivano festosi. Il comandante del Presidio uscì dall’edificio, raso di fresco, con il suo pellicciotto di agnello e con in mano una rustica frusta con cui descriveva mulinelli. “Così avete dormito bene, signorine? – disse salutandole – Spero che tutto quel chiasso non vi abbia impedito di fare sogni dorati”. E le guardava, strizzando gli occhi. Esse arrossirono leggermente.”Lei” si appoggiò al braccio di D, che ne rimase un po’ seccato, guardandolo con occhi d’amore.
Da una porta situata ne fabbricato dove era l’infermeria, uscirono ad un tratto alcuni uomini dall’aspetto stanco, indossanti strane divise, dissimili tra loro, meno un emblema ricamato in nero su fondo rosso, applicato al lato sinistro della giubba. Dietro a loro venivano quattro soldati con la pistola mitragliatrice puntata. Erano i partigiani fatti prigionieri durante la notte. Sfilarono in silenzio dinanzi al gruppetto fermo presso la macchina. Cominciarono a salire sull’autocarro vuoto. Le ragazze, pallide subitamente in volto, li guardarono convulsamente. “Lei” si strinse ancor di più a D come a chiederne protezione.
Ad un tratto uno dei prigionieri, osservandole attentamente, gridò nella loro direzione in dialetto: “Ma voi non siete mica le figlie del Magino, le sorelle di Renato?”. La bionda, istintivamente, fece cenno di sì con la testa, mentre la sorella appoggiata al braccio di D tremava come se morisse. “Sì? – riprese quello – E allora, puttane che non siete altro, che cosa fate con questi? Non sapete che l’altr’ieri a Balma Folle, queste carogne hanno fatto fuori vostro fratello?”.
Uno dei soldati di guardia lo interruppe con un ceffone in pieno viso e quello tacque, mentre dalla bocca gli usciva un po’ di sangue. Ma continuava a guardare con odio le ragazze finché l’autocarro non si mise in moto. Un silenzio cadde in mezzo a loro, un silenzio fatto di dolore e di ricolta inutile. Il comandante di Presidio, senza mostrare di aver fatto caso all’accaduto, salutò il capitano R. “Beh, buon viaggio. Appena arrivato fammi un fonogramma. Tante cose a L”. poi rivolto ai due ufficiali: “Arrivederci, ragazzi. Spero rivedervi al ritorno.”. Tacque, poi d’improvviso fissò le ragazze con il suo sguardo, ora limpido e schietto, senz’ombra di ironia: “Signorine… credano, mi dispiace… è la guerra”. Salutò e rientrò al Comando, facendo mulinelli con la sua frusta.
Le ragazze,da quando il prigioniero le aveva apostrofate, erano rimaste immobili, impietrite, poi senza rumore si erano messe a piangere. “Lei” continuava a tenere il suo braccio in quello di D, finché, come uscendo da un sogno, si staccò bruscamente, si curvò sulla macchina piangendo ormai senza ritegno, con singulti che la facevano sussultare come uno spasimo, indifferente agli sguardi di tutti quegli uomini divenuti di colpo nemici. D cercò di calmarla. “Lei” si scostò con violenza: “Lasciami” sibilò improvvisamente. Tutti i monti circostanti erano ripieni di sole, sulle creste aleggiava una levità non reale. Vivere su quelle cime, tra le rocce ed il sole, fuori dal chiuso della valle, di questa valle di lacrime. Il suo morbido corpo si contorceva ora squassato dal pianto, forse da un indefinito rimorso, le lacrime le rigavano il viso, il fazzolettino non riusciva a fermarle.
D sentiva dentro di sé qualcosa che bruciava e trasaliva, e non sapeva cosa dire e cosa fare. Ripensava alla canzone, alla luce verde-azzurrognola, a quella notte, al ferito, alle bende sporche di sangue, alla vita.
Erano tutti immobili vicino alla macchina, lui, T, le ragazze, cui il dolore dava ormai un aspetto puro e staccato dalla vita: nessuno di loro aveva il coraggio di fare un gesto per primo, di rompere quell’atmosfera. Il capitano R mise in moto il camioncino, e sporgendosi dal finestrino, disse: “Ragazzi bisogna andare”.
Le macchine correvano ora verso A***. Tra le montagne radiose, verdi pinete, rocce precipitantisi a picco nel fiume. Il tenente D guardava la strada, i monti, e “lei”, lei che ora non piangeva più, il volto irrigidito, stretta tra le latte di benzina e la grossa cartella di cuoio della corrispondenza ufficiale. Guardava la sua divisa, il mitragliatore con la sicurezza tolta, che teneva stretto tra le mani. E capiva che tra loro non c’era più nulla, non c’era mai stato nulla, anche se per una notte le loro vite si erano incontrate. Ognuno ha il suo destino: da seguire fino in fondo. Mentalmente mormorò a sé stesso: “La partita si era iniziata con una coppia di Donne…”.

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Enrico de Boccard (introduzione di Sandro Marano)

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