A proposito di Russia, a proposito di Russie (e di Russi Bianchi, e principi baltici): Ungern Khan

Pietrangelo Buttafuoco tra storia e mito sulla figura di un guerriero senza tempo

Il barone von Ungern

A proposito di Russia, a proposito di Russie (e di Russi Bianchi, e principi baltici)

Premesso che Ungern Khan – il più affascinante tra i soldati in guerra “contro Trockij e contro Cristo” – non è morto ma reincarnato, dichiarato appunto Mahakala da Thubten Gyatso, tredicesimo Dalai Lama; premesso che la sua tomba è puro luogo dove tra le dure crete di Novonikolaesvsk c’è solo la Croce di San Giorgio, la medaglia che inghiottì prima di essere fucilato dai bolscevichi e dove ancora oggi vi arrivano gli sciamani per gridare “Urrah, urrah, urrah”; premesso che il suo anello con il segno di Shiva, lo swastika – non la chevalière del lignaggio baltico, ma l’anello del Re del Mondo, sacrissimo ai popoli d’Asia e d’Europa – gli è stato prelevato il 15 settembre 1921 dal suo carceriere, il generale sovietico Bljucher, e poi, all’epoca della Grandi Purghe, passato nelle mani del maresciallo Zhukov, il vincitore di Stalingrado (fino a venti anni fa ancora in possesso della figlia di quest’ultimo); premesso tutto ciò il libro di Vladimir Pozner, Il barone sanguinario (Adelphi, euro 22,00) è pura mistificazione intorno alla vita e al destino di chi inventò la più abietta delle torture: legava i polsi dei prigionieri con degli stracci sporchi di sterco di cavallo ancora umido. E il supplizio non era certo destinato all’olfatto ma a far fermentare quella cacca da cui si generavano i vermi che rosicchiavano la carne fino a far staccare, tra atroci tormenti, le mani.
Premesso tutto ciò la menzogna non può offendere Roman Nicolaus Fiodorovic von Ungern-Sternberg, signore della guerra, sotto il cui vessillo marciò la divisione di dungani, sarti, mongoli, cinesi, giapponesi, karakalpaki, turkmeni, calmucchi, baschiri, kirghisi, tatari e, naturalmente, russi. Fecero orda, tutti quegli asiatici, riconoscendo in quel soldato l’erede di Gengis Khan «…per poi dedicarsi alla restaurazione della monarchia zarista». Onorarono una storia che Pozner, dalla felice penna, ricostruisce catalogandone gli enigmi, le false piste e i misteri fino a farne un mostro da destinare al folklore.
Fu ad Urga che Ungern liberò il Dalai Lama fatto prigioniero dai cinesi, ristabilendolo sul trono quale prefigurazione del Buddha venturo, il barone ebbe come appellativi, nell’ordine, “pazzo”, “nero” e, appunto, “sanguinario” ma vestì sempre la tunica gialla di lama sotto il magnifico mantello di ufficiale imperiale.
Come Bram Stoker, anche Pozner sottrae vita dalla straordinaria personalità di Ungern Khan per farne un personaggio da destinare all’anatema. E così come il conte Vlad Tepes di Valachia, un altro signore della guerra, fu proclamato vampiro da Stoker e perciò macchiato per sempre fino a farne maschera di successo ma pur sempre maschera, così il barone, il “sanguinario”, lo sterminatore nemico delle sorti progressive dell’umanità, è il macabro Dracula a noi più vicino. Quando Pozner se ne occupa, infatti, accettando la proposta di scriverne la biografia, studia vicende concluse da appena qualche decennio eppure già soffuse in un’aura leggendaria. Comincia da Parigi dove interroga tassisti che fanno il baciamano alle signore quando entrano nelle loro vetture. Indossano camicioni da lavoro il cui taglio, impeccabile, rivela un’antica educazione. Sono granduchi, principi e generali rifugiatisi in Francia dopo la Rivoluzione d’Ottobre, ci sembra di riconoscerli tra le comparse dei film Anastasia, fanno il loro dovere di chaffeur come se il carburatore delle Renault potesse far sentire il tintinnare degli speroni e lo stridere delle sciabole a beneficio di uno stile. E di ogni struggente malinconia, Pozner, giornalista ma anche sceneggiatore, produce effetti in crescendo per costruire una pessima reputazione al suo “personaggio”. Lui che ebbe modo di sfogliare album e diari dove capita di trovare in allegato campioni disseccati di flora della Transbajkalia nega al Barone almeno due capitoli fondamentali: il ruolo sacerdotale che fu predominante, non fosse altro per via del sigillo del Re del Mondo, e poi ancora i significati legati al sollevamento di un esercito così fortemente asiatico nel momento in cui Mosca diventava capitale del bolscevismo internazionale. E’ stato più rispettoso Hugo Pratt che volle mettere il Barone sulla strada di Corto Maltese di quanto non abbia fatto Pozner quando impegna il Barone, nella pagine meno plausibili di un libro comunque fantasioso, in una discussione su Albert Einstein con due prigionieri bolscevichi ebrei. E’ una sorta di gara tra la teoria della relatività e le carte celesti tracciate dai Lama tibetani ma, a voler essere pignoli, le mappe lamaiste non hanno avuto neppure la smentita da Galileo ma sono cose evidenti nel deserto del Gobi «dove ci sono serpenti che, quando un’ombra si posa su di loro, si slanciano in avanti e riescono a trapassare un cammello e due casse di tè». Non si fa cenno del fatto che il barone, erede di una schiatta cui bastava leggere il proprio albero genealogico per conoscere la storia del mondo, non era un convertito ma nato lamaista tibetano, compagno d’arme di mongoli abituati a consumare pasti – nell’era dei monopoli e del capitalismo – in teschi intarsiati d’oro e di argento; non era ovviamente occidentale, europeo e “cristiano” di educazione e non poté accettare il mutarsi del suo mondo secondo i principi del Terrore, “la giustizia del popolo”, che vedeva precipitare nel kali-yuga, ovvero l’età oscura, l’ordine gerarchico della Siberia “bianca” e della Mongolia, già cuore di nitore di uno spazio che si dilata dal Baikal allo Hsing-Kiang e al Tibet, già patria spirituale dell’ineffabile Shambhala, “la terra degli iniziati”.
Pozner che scrive un libro pensando di liquidare un avventuriero sotto la categoria del “sadico” non considera quanto fosse fondamentale per Ungern Khan, pur nella consapevolezza della disfatta, issare lo stendardo di una cultura antica oltre cinquemila anni in contrapposizione col principio opposto, quello fugace e terreno della moderna società materialista. Militante comunista, Pozner, nel solco di una celebrazione cui non si sottrae né il cinema sovietico (Ego zovut Suche Batur, diretto nel 1942 da Alelsandr Zarchi e Josif Chejfiz), né la monumentale“Enciclopedia sovietica”, fa di questo eroe della “Russia bianca”, una leggenda nera secondo il noto principio: tanto più grande è il nemico tanto maggiore è il merito nell’averlo sconfitto, specie se a far da corto, nella scena del processo, vengono convocati cinesini e contadini desiderosi di sapere chi fosse mai Don Chisciotte.
La scrittura di Pozner è sontuosa: le ragazze nei collegi attendono il passaggio dei reggimenti per organizzare i balli mentre i soldati, attardati tra le pagine, battono le mani per il freddo e sembrano applaudire lo scenario dell’inverno ingoiati dalla solitudine.
Il barone Ungern-Sternberg onora i sogni dell’infanzia ed è fratello dei mongoli cui ha dato una direttiva di marcia, verso il sole: «Essi non hanno né mura né città e le case se le trascinano ovunque vadano. Inoltre, sono abituati, dal primo all’ultimo, a tirare con l’arco stando a cavallo, non vivono di agricoltura, ma di allevamento, e hanno come unica dimora dei carri coperti: come potrebbero non essere invincibili?»
Il barone Ungern Khan, nel libro di Pozner, parla con le descrizioni di Erodoto, peccato che in questa biografia manchi la sua ultima notte di libertà nella yurta di Ja Lama, il calmucco nel cui nome “ja” c’è “khalka”, ovvero fato, destino, karma ma non è precisamente una biografia quella di Pozner, è solo un romanzo. Lui è il Bram Stoker del Comandante della Divisione asiatica di Cavalleria, legittimo erede di Gengis Khan, pellegrino in cammino verso il Re del Mondo.
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Pietrangelo Buttafuoco

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