Un recente studio della Agostini Associati sull’uso dei termini inglesi utilizzati nelle aziende ha rilevato che negli ultimi otto anni l’uso dell’idioma anglosassone è aumentato quasi dell’800%. L’uso massiccio di termini stranieri è un sintomo che non va sottovalutato, significa perdita della nostra identità, cedevolezza ad interessi sovranazionali. L’aveva ben compreso Joseph de Maistre che ammoniva: “Un vero filosofo non deve mai perdere di vista la lingua, vero barometro le cui variazioni annunciano infallibilmente il buon e il cattivo tempo. E’ certo che la smodata introduzione di vocaboli stranieri è uno dei segni più infallibili della degradazione morale d’un popolo.”
La cosa davvero curiosa e allarmante, però, è che la maggior parte dei termini assimilati da chi parla italiano ha connotazioni diverse da quelle che avevano in origine, col rischio di penalizzare le comunicazioni sia tra connazionali sia tra persone di provenienza differente, che si ritroverebbero ad esprimere concetti differenti utilizzando la stessa parola. Prendiamo, a mo’ d’esempio, la parola ticket che in inglese significa biglietto. Sennonché nel burocratese italico è d’uso indicare con ticket un tributo (il ticket sanitario!), o comunque un contributo fiscale. La parola inglese nasconde in questo caso un vessatorio balzello!
Ricordiamo, per inciso, la satira immortale del latinus latinorum di manzoniana memoria. “Occorrerebbe – afferma a questo proposito Marco Biffi, docente e responsabile del sito dell’Accademia della Crusca – abbandonare l’atteggiamento “provincialista” di pensare che la cultura e la lingua straniera sia migliore di quella italiana.” Parole sacrosante! Credo che quest’appello alla chiarezza nel linguaggio e alla difesa della propria lingua vada accolto, per cominciare, dai giornalisti che influiscono e in parte formano la pubblica opinione.