“Doppia vita”, l’eredità mai reclamata di Gottfried Benn

Doppia vita è un libro d’addii, d’ebbri equivoci, di baci venerei, che si riconcilia sulla pagina nel non aver più nulla da spiegare o da giustificare

Doppia vita, di Gottfried Benn, recentemente ripubblicato da Adelphi, è l’impossibile tentativo di mettere in ordine autobiografico la materia viva, spasmodica, incandescente e congelata, giocoforza ambigua, che attraversa, come fugace quanto violentemente accecante cometa, i campi di rovine fumanti del XX secolo. Il Poeta, va da sé fortemente influenzato dalla filosofia di Nietzsche, si porta appresso il fardello dell’incomprensione crescente, l’incombenza tragica dell’accerchiamento montante, accettando stoicamente, anzi esasperando tale scomoda condizione isolazionista, invece di attenuarne l’insopportabile stridore. Un simbolismo metallico presidia il testo, umanesimo ambulatoriale insofferente al compromesso, perizia medica sul cadavere Europa, sul trapasso dei suoi cantori. Già partecipe della Rivoluzione conservatrice, ma curiosamente provenendo da esperienze espressioniste estreme (Morgue), trasposte nell’avanguardia poetica dei primi anni del ‘900, Benn appare ancora oggi come una contraddizione vivente; se l’uomo, propenso ad un certo anonimato senza qualità degno di Musil – basso profilo di medico, pedanti indagini nell’albero genealogico per ribadire sangue ariano, l’iniziale adesione al nazionalsocialismo, fatta passare poi come un indolente automatismo (demonismo patriottico? Irrazionale battesimo dell’Uomo nuovo? Illusioni faustiane?) quindi deflagrata in una iperbole di diffidenze ed incompatibilità evidenti – è pregno di un’apatica, generalizzata insoddisfazione esistenziale, il Poeta tende piuttosto a fare dell’autopsia clinica il criterio allegorico, il metodo grottesco crematorio per cavar fuori qualcosa di putrido, eppure labilmente ancora vitale, dal carosello di evanescenze che lo vorrebbe relegare a comprimario, ad inerme spettatore del nulla in parata. Aderisce astenendosi. Si disciplina alienandosi. Acconsente negandosi.

Non è affatto semplice affrontare l’onirico-ospedaliero incedere delle spietate parole di Doppia vita, in Benn c’è come una morale costantemente messa sotto scacco, purezza d’intenti vituperata e olimpica grandiosità classica volutamente insudiciata dal banale atto d’osservare qualche maceria o macelleria umana, prendendone nota scrupolosamente: impietoso masochismo? Tratta di sé, in fondo. Nichilismo parossistico? Il paradosso deflagra proprio quando – a fronte della missiva ricevuta dal vecchio ammiratore Klaus Mann, espatriato come altri intellettuali per giudicare comodamente la Germania da lontano, da fuori al sicuro – Benn rivendica coraggiosamente un’appartenenza nazionale, anche estetica nel culto della forma sempre in procinto di disfarsi, che rasenta l’equivoco surreale, che profuma d’incoscienza ponderata. Lo sa bene che è destinato all’onta pubblica, alla marchiatura burocratica riservata agli artisti degenerati, al castigo degradante degli artisti cosmopoliti in odore di bolscevismo, ne è conscio eppure, come recitando stancamente Kafka coi suoi fagocitanti processi, s’accontenta di mimetizzarsi nell’esercito, evaporando puerilmente nel servile anonimato dei soccorsi ai corpi agonizzanti, ultima enclave per dissidenti interni.

Espressione ed autocensura, sberleffo ormai incomprensibile al popolo ottusamente adorante un nuovo fantoccio delirante, altresì sprofondando sempre più nei ranghi, nelle ubbidienze formali, tra gli ingranaggi di un potere meccanico, sempre più standardizzato, seriale, implacabile, incurante delle difformità una volta espulse dal “corpo sano della Nazione”. Una prosopopea di cartongesso, quale migliore scenografia per un poeta stanco della vita. E la malattia? La morte? La guerra? Il disastro della sconfitta? Chi ci penserà al finimondo, se non l’aedo emarginato dall’occhio lucido? Troppa luce nel cimitero Europa. Troppa entusiastica decadenza.

Tant’è che a Benn, assai prevedibilmente, venne proibito di pubblicare durante il millenario Reich durato meno d’un decennio. Se n’erano accorti? Avevano capito finalmente che non era uno dei loro, incredibilmente erano riusciti a tradurre in dispacci e delazioni quello squallore imbellettato denominato poesia macabra, mentre lui, fatalmente ripudiato, ancora immaginava viventi certi strascichi del romanticismo tedesco, ultimi lacerti d’un teatro bombardato senza pietà dall’armato futuro democratico e borghese. I suoi ambigui giochi tanatologici, quelle stravaganze mefistofeliche, purulenze ed ematomi ispezionati al microscopio, tutta brodaglia da lettiga, materiale per vermi, brandelli d’umanità scientificamente esaminati eppure straordinariamente poetici nel loro vano dimenarsi per un’idea di estrema sopravvivenza, spettri ai confini nebbiosi del camposanto, obnubilanti da accecanti mitologie riadattate in farsa, lo alienarono a qualsivoglia ideologia – nazista comunista democratica – generando di fatto una eredità non reclamata da alcuno, privilegio dello scandalo tuttora vigente. Il grande oltraggio sputato in faccia alla retorica uniformante finì per collocarlo in nessun luogo, alieno al suo tempo ma proprio in quanto tale preziosa eccezione, più attendibile di qualsiasi altra diaristica narrante fatti storici, brogliacci riscritti, eludendo emozioni e opportune condoglianze alle titaniche dottrine sepolte. Doppia vita è un libro d’addii, d’ebbri equivoci, di baci venerei, che si riconcilia sulla pagina nel non aver più nulla da spiegare o da giustificare. Privilegio del leggere.

Donato Novellini

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