Scuola “Gentile”. L’attimo fuggente: in ode del rischio educativo

John Keating, insegnante di letteratura, protagonista de L’attimo fuggente
John Keating, insegnante di letteratura, protagonista de L’attimo fuggente

Non basta la pedagogia. E nemmeno la deontologia. Né, tantomeno, la didattica. Il problema dello scarso rispetto del quale molti docenti godono non è di natura “scientifica” e non può pertanto essere affrontato secondando più o meno mirabolanti ricette provenienti dall’ultimo studio uscito sulla blasonata rivista pedagogica a stelle e strisce di turno. Giovanni Gentile – il cui solo nome è ancora sufficiente a far drizzare i canuti peli ai colleghi più anziani, quelli se non altro anagraficamente più vicini alla sciagura sessantottina – l’aveva capito: l’insegnamento non è un lavoro, è un’arte. Proprio come la maieutica socratica, anch’esso richiede capacità, ma anche sapienza, un po’ di pazienza, un pizzico di presunzione, una certa dose di egocentrismo.

A proposito. Se fosse nella disponibilità del sottoscritto affiggere un imperativo categorico all’uscio di ogni aula scolastica, questo suonerebbe così: «Diffidate dei professori che non sono superbi». Questo, naturalmente, detto da un inguaribile superbo che sa come e quanto fare i conti con il proprio vizio capitale. La superbia isola, illude, ipnotizza. Ma uscire dalla fascinazione è possibile solo dopo averne subìto gli effetti. Cosa possono sapere della superbia quei giovani professori che si aggirano con fare dimesso per i corridoi dei Licei nazionali, con l’atteggiamento di chi si sente un po’ padre un po’ fratello maggiore dei discenti; o, ancora, quelli che hanno introiettato a tal punto le sciocchezze imposte a tutti noi durante i corsi di specializzazione ssis, fis, tfa o come diavolo si chiamino, volte a convincerci che il riferimento ideale del docente dovrebbe essere una sorta di impiegato sindacalizzato oberato dal peso di un mondo storto da raddrizzare. Una via di mezzo fra il conformismo borghese, il risentimento operaio incanalato in spirito di classe oppressae l’idealismo insulso dell’anima bella beffeggiata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito.

Ecco, la conformizzazione coatta al ribasso della classe docente: qui si tocca un punto nodale. Conformizzazione di coloro che insegnano come momento decisivo nella conformizzazione al ribasso di coloro che imparano. La spettacolare eterogenesi dei fini della sessantottina immaginazione al potere, dallo sciagurato “vietato vietare” al nefasto “l’obbedienza non è più una virtù” di barbianesca, famigerata memoria, impazziti, tutti quanti, come una maionese resa immangiabile dal conformismo più grigio e sterile che si possa immaginare: quello dell’anticonformismo e del falso individualismo. Il sistema educativo nazionale fatica a riprendersi dai postumi di questa sbornia, e ne reca tuttora segni evidentissimi.

L’idiosincrasia del blocco di potere politicamente corretto nei confronti della scuola come palestra di sacrificio, di fatica del concetto, di affinamento morale e comportamentale ha ragioni profonde, e ben giustificate, dal momento che l’attuale disagio socio-educativo diverrebbe all’improvviso inspiegabile qualora famiglia e scuola tornassero a muoversi ciascuna nel suo ben delimitato ambito.

Eppure, stare in cattedra è difficile, davvero. E come non basta la pedagogia, così non bastano superbia ed egocentrismo, naturalmente. Questo vuol dire che esistono momenti nei quali l’amletico dubbio relativo a come interagire con delle giovani persone in formazione diviene impellente. Il prof. John Keating dell’Attimo fuggente– e non solo lui, naturalmente – direbbe che il professore è colui che riesce a consentire a ciascuno dei suoi pupilli di trovare la propria strada. Ma al suo tempo la cosa era più facile: struttura e sovrastruttura negli anni Cinquanta consentivano – ed anzi: incoraggiavano e consigliavano – la destabilizzazione come via alla crescita. Oggi il problema è quello contrario, dal momento che famiglie e dirigenti si attendono dai professori un’azione di supplenza strutturante permanente. E non nel senso del rimpiazzo in cattedra del collega malato. Depressioni, esaurimenti, attacchi di panico. Suicidi. E quando non sono disturbi della personalità, sono quelli intellettivi, legati a ritardi cognitivi assai generosamente diagnosticati onde ottenere le congrue e debite “misure dispensative e compensative”. Decisamente troppo. Il cocktail di fragilità, arroganza e desiderio di aggirare ogni redde rationem con la durezza e l’imprevedibilità della realtà rischia di essere letale: come può un professore stimolare, formare, provocare, se l’esercizio delle sue funzioni viene costantemente sottoposto alle limitazioni connesse a timori ed aspettative parentali, rafforzati dalla spada di Damocle di ricorsi e denunzie utili a fungere da deterrente verso anche i migliori fra i dirigenti?

La scuola è malata. Malata di paura. Il coraggio è l’unica via d’uscita. Torno a pensare all’Attimo fuggente, ultimamente mi capita più spesso del solito, e mi chiedo: il suicidio di Neil Perry è atto d’accusa nei confronti dell’insegnamento del prof. Keating o nei confronti di quello della sua famiglia? O forse, soltanto nei confronti della debolezza del suicida? Difficile darsi una risposta. Forse tutte e tre. Una cosa, però, è sicura. Se Keating avesse avuto costantemente di fronte agli occhi il possibile esito delle sue parole alla luce di quello che oggi chiameremmo il quadro familiare e psicologico completo dei suoi studenti – magari con l’aiuto di insegnanti di sostegno e psicologi – forse Neil Perry sarebbe ancora vivo. Forse. In compenso, di sicuro, Todd Anderson sarebbe ancora morto. Non biologicamente, ma dal punto di vista dello sviluppo della propria intelligenza e personalità.

La verità è che l’atto educativo comporta dei rischi, proprio perché implica l’apertura di un canale di contatto fra due personalità. È un contatto vero, reale, e taledeve rimanere. L’attimo da cogliere orazianamente è quello che i greci avrebbero chiamato chairos: l’attimo giusto. Un attimo che non è ordinario né democratico: può giungere, ma anche non giungere, e quando giunge non lo fa preoccupandosi della nostra capacità di coglierlo. Bisogna essere pronti a coglierlo, e quel che nasce dall’incontro con esso può essere sorprendente, e magari non troppo piacevole.Rischioso, addirittura, forse. Ma vero, questo sì. La conseguenza di questa constatazione è paradossale. Gli alfieri post-sessantottini della scuola super-inclusiva e psicologizzante di oggi, presi come sono dal tentativo di smussare, addolcire, levigare, prevedere, anticipare si ritrovano dalla stessa parte della barricata di coloro che, negli anni Cinquanta, pretendevano porre al riparo i discenti da ogni avventura intellettuale e dai rischi che potevano conseguirne, costringendoli a professori standardizzati ed a corsi volti a misurare il valore della poesia con un grafico, come nel saggio introduttivo Cos’è la poesia di J. Evans Prichard, professore emerito, citato nella pellicola. Oggi come allora, la migliore risposta rimane quella dello stesso Keating:

escrementi! Ecco cosa penso delle teorie di J. Evans Prichard.

Francesco Forlin

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