«Estate tu non declinare.
Resta come sei, maestosa
e oppressiva, tu tiranna
di terraferma.
Porta le meduse sin
sulla sabbia.
Sei tu che hai bordato la rosa
di troppa luce, e pian piano
l’hai disfatta
e tu che alle vigne prometti
il vino lento e dolce.
Mi stendo nelle tue bonacce.
Non declinare. Resta
come sei, nuda e
sola. Amare non è più
necessario.
Tu conosci l’immobilità del piacere.
Porta le meduse sin
sulla sabbia.,
decapita i giunchi, incendia
i ginepri. La costa tutte le sere
è come una carcassa bianca.
Sei tu che sospendi nubi
aride sopra le pianure e i carrubi
solitari, sopra le foreste
e le isole
assetate.
Mi stendo nelle tue asciutte
tempeste.»
L’ambiguità dell’estate
Spigolando tra le varie poesie dedicate all’estate presenti nella raccolta Le stagioni (1998) del poeta Giuseppe Conte, ci soffermiamo su questa intitolata Poseidone.
Anche il poeta ligure personifica l’estate e si rivolge a lei confidenzialmente con un tu, ma, a differenza di Gabriele D’Annunzio e segnatamente del suo Meriggio, mette in risalto l’ambiguità dell’estate, la sua bellezza e la sua tragicità insieme, la sua pienezza e la sua oppressione, il paradosso di una forza che fa nel contempo sfiorire la rosa e maturare le vigne.
Conte nei suoi versi allude evidentemente a quel doppio volto della vita – gioia e dolore – investigato dalle filosofie dell’esistenza e plasticamente raffigurato da Nietzsche nella feconda opposizione apollineo-dionisiaco. Il filosofo dell’eterno ritorno già nella sua prima opera, La nascita della tragedia, aveva infatti osservato che per i Greci antichi «la loro intera esistenza con tutta la sua bellezza e misura era piantata su un fondo nascosto di dolore e di conoscenza che lo spirito dionisiaco rimetteva in mostra». E a lui faceva eco il romanziere e filosofo esistenzialista Albert Camus che in Estate, una raccolta di brevi saggi scritti tra il 1939 e il 1953, scriveva: «Il Mediterraneo ha la propria tragicità solare che non è quella delle nebbie. Certe sere, sul mare, ai piedi delle montagne, cade la notte sulla curva perfetta d’una piccola baia e allora sale dalle acque silenziose un angosciante senso di pienezza. In questi luoghi si può capire come i Greci abbiano sempre parlato della disperazione solo attraverso la bellezza e quanto essa ha di opprimente».
La poesia di Conte si nutre di questo pensiero classico e mitico che, a buon diritto, possiamo definire mediterraneo.
(fine)
Sandro Marano