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Olimpiadi. Storico oro per Carapaz e per il suo Ecuador nel ciclismo

Dai tatticismi esasperati che bloccano la gara, trae giovamento il sudamericano, che vince in solitaria. Sfortunatissimo Alberto Bettiol (14°), in lotta per una medaglia e arresosi ai crampi a pochi chilometri dall’arrivo

by Lorenzo Proietti
26 Luglio 2021
in Sport/identità/passioni
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Prima del 24 luglio 2021, l’Ecuador nella storia delle Olimpiadi aveva conquistato solamente due medaglie, una d’oro e l’altra d’argento, entrambe con il marciatore Jefferson Perez, rispettivamente ad Atlanta 1996 e a Pechino 2008: in questo circolo esclusivo però, andrà ad aggiungersi anche Richard Carapaz, vincitore del Giro d’Italia 2019 e splendido trionfatore della prova in linea di ciclismo su strada delle Olimpiadi di Tokyo 2020, corsasi alle pendici del Monte Fuji, la montagna sacra per i giapponesi.

La prova maschile di ciclismo in linea (via dato quando in Italia erano le 4) era infatti nel novero privilegiato delle discipline che assegnavano medaglie già nella prima giornata ufficiale della competizione, giornata immediatamente successiva la cerimonia di apertura: il percorso, molto duro, prevedeva 4865 metri di dislivello, lungo 234 chilometri di un percorso che partiva ad ovest di Tokyo, per poi concludersi all’interno del circuito automobilistico del Fuji, dove era ricavato il traguardo; ad aumentare le difficoltà per i corridoio, c’era il caldo considerevole.

 

Le fasi iniziali si lasciano apprezzare soprattutto per la più classica delle fughe, portata via da otto atleti (Juraj Sagan, Dlamini, Kurkle, Tzirtakis, Aular, Grosu, Daumont e Asadov), arrivata ad avere un vantaggio massimo di 20’, almeno fino a quando il gruppo, tirato in testa specialmente da Belgio e Slovenia, che sacrificano in particolare Greg Van Avermaat (vincitore dell’oro per il Belgio a Rio 2016) e Jan Tratnik, non ne ha annullato piano piano l’enorme distacco: sostanzialmente, la gara si anima negli ultimi cinquanta chilometri, con una prima accelerata di Giulio Ciccone sulla salita del Monte Fuji (a gettare la spugna in questo caso, dei grandi, è il solo Alejandro Valverde) e un successivo scatto del belga Remco Evenepoel, tra i grandi favoriti della vigilia che doveva però presto cedere il passo, come per altro Nibali e Caruso, questi ultimi dopo aver lungamente lavorato, chiudendo a più riprese sui tentativi di allungo in testa al gruppo.

Neutralizzata definitamente la fuga, a risultare fondamentale era a quel punto l’ascesa al Mikuni Pass, con i suoi 7000 metri e con punte massime del 21, 22% di pendenza.

Ai meno 37 chilometri e 400 metri dalla fine, arriva la progressione del fresco vincitore del Tour de France Tadej Pogacar: la violenta accelerazione dello sloveno, in progressione, oltre a scremare il plotoncino, crea un terzetto al comando, terzetto composto, oltreché da Pogacar, anche dal canadese Michael Woods e dallo statunitense Brandon McNulty, cui presto si aggregano anche il polacco Kwiatkowski, l’italiano Alberto Bettiol  e successivamente il belga Van Aert, proprio Carapaz, il britannico Adam Yates, il colombiano Uràn, il francese Gaudu, l’olandese Mollema, il danese Fuglsang e il teutonico Schachmann; sono questi atleti, dopo lo scollinamento, a giocarsi il successo nell’ultima sezione del percorso, contraddistinta da una trentina di chilometri in falsopiano e da un chilometro e mezzo di salita con punte del 10%, ascesa posta in questo caso ai meno sei dalla fine.

 

Sarà proprio il falsopiano a rivelarsi decisivo.

Ripreso Fuglsang che aveva provato ai meno 27 (e duecento metri), ai meno 24,2 e in pieno falsopiano, si muovono Carapaz e McNulty: è una questione di metri, cinque massimo dieci ma la paura degli altri di organizzare dei cambi regolari e di poter aiutare così Wout Van Aert (sulla carta il più forte in volata) o Pogacar (in teoria devastante in vista dell’ultima salita) ingessa ogni reale possibilità di inseguimento, così che la fase di studio tattico di fatto si trasforma in un trampolino di lancio per i due fuggitimi che in pochi chilometri arrivano ad avere addirittura 40” di vantaggio, lasciando al solito Van Aert la responsabilità di ricucire lo strappo; il belga, in effetti, è quasi commovente e si sobbarca pressoché in solitaria il lavoro sporco, in una sorta di cronometro personale, mediante la quale conduce con sé il resto del primo plotoncino inseguitore, in un dispendio immane di energie che non riusciranno comunque ad affievolire il distacco oltre i 15”.

Ai meno 15, ecco un altro grande colpo di scena: l’italiano Bettiol, fin lì protagonista per una condotta molto oculata (ottimamente assistito dagli altri componenti della squadra azzurra, vale a dire Nibali, Caruso, Moscon e Ciccone), deve arrendersi ai crampi e abbandonare ogni velleità di medaglia (arriverà 14° a 3’38”), così come farà il campione del mondo 2014 Kwiatkowski ai meno 11,6.

 

L’ultima salita

All’imbocco dell’ultimo strappo, arrivati i due fuggitivi ai meno sei, si consuma la “fuga per la vittoria”: Carapaz dà un’altra zampata nel tratto al 5% e questa volta nemmeno McNulty è in grado di rispondergli; anzi, se da una parte il ciclista statunitense viene persino ripreso dai concorrenti diretti ai meno 4600 metri, la progressione di Carapaz, nella sua dirompenza, si fa inesorabile, arrivando l’ecuadoregno a scavare un solco profondissimo tra sé e i suoi più diretti inseguitori i quali, tra scatti e contro scatti, anche negli ultimissimi chilometri, non avrebbero fatto altro che sfilacciarsi ancora di più (va anche detto che al di là di Van Aert, nessuno si è dimostrato veramente in grado di poter lavorare per raggiungere il corridore che viaggiava spedito verso il bottino più prezioso).

È così che Richard Carapaz arriva a braccia alzate (in 6h 05’26”), sicuramente incredulo e in solitaria si prende l’oro di Tokyo, come pure un posto nella storia: alle sue spalle, in volata, l’argento e il bronzo se lo guadagnano i due grandi favoriti della vigilia, con Van Aert che regola Pogacar e gli altri.

Se per lo sloveno il bronzo resta comunque un risultato positivo, per il generosissimo belga, vincitore di tre tappe all’ultimo Tour (dal quale uscivano, oltre ai già lungamente citati Van Aert e Pogacar, anche Nibali e soprattutto il trionfatore della prova olimpica, che in questo 2021 si era imposto anche al Giro di Svizzera), l’argento olimpico è il terzo gradino medio del podio consecutivo, dopo quelli in linea e a cronometro del mondiale di Imola 2020.

Chissà, forse una delusione, sebbene ancora una volta lo stesso Van Aert abbia nonostante tutto rimarcato la propria forza, il carattere e soprattutto l’immensa generosità che lo contraddistingue, con la quale avrebbe potuto chissà, magari a fronte di una maggiore collaborazione, raggiungere l’agognato primo posto; male a conti fatti anche l’Italia, detto della sfortuna di Bettiol, dalla quale vista anche l’asperità del percorso ci si poteva aspettare verosimilmente di più.

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti

Lorenzo Proietti su Barbadillo.it

Tags: ciclismoolimpiaditokyo2020

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