Gli storici dell’Italia durante la seconda guerra mondiale si dividono in due categorie: quelli che quando si svegliano di notte, magari per motivi prostatici (a una certa età può capitare), rimuginando il passato soffrono per non aver capito che una ragazza conosciuta molti anni prima era innamorata di loro, perdendo una bella occasione; e quelli che, invece, soffrono atrocemente perché, accanto al processo di Norimberga e al processo di Tokyo, non c’è stato un processo di Roma, a carico dei presunti criminali di guerra italiani.
Angelo Del Boca, scomparso il 6 luglio scorso, a 96 anni, apparteneva a questa seconda categoria. Non perché, come il suo corregionale Guido Gozzano, amasse le “rose che non colsi”, ma perché il desiderio di sfatare il mito degli “italiani brava gente”, di mettere sotto accusa il nostro popolo e il nostro esercito, a tutti i livelli, sembrava prevalere in lui su qualsiasi altro sentimento. Il libro in cui trapela di più la sua libido è il pamphlet Italiani brava gente?, in cui non esitò ad attingere anche alla storiografia neoborbonica per denigrare il nostro popolo, che poi era anche il suo, inserendosi in un filone polemico già aperto da Borgese con Golia e da Fabio Cusin con L’antistoria d’Italia. Ma la sua opera sarà ricordata soprattutto per i saggi, non privi di spessore, sul colonialismo italiano, e per il confronto che ebbe con Montanelli sulla (allora) vexata quaestio dell’uso dei gas tossici in Etiopia da parte del nostro esercito.
Tale uso era stato già denunciato dalle potenze ostili all’Italia durante la guerra d’Abissinia, le stesse per altro che vendevano all’Etiopia proiettili esplosivi – le cosiddette pallottole dum dum – proibite dalle convenzioni internazionali. Sarebbe stato pervicacemente negato dal nostro Stato maggiore, dalle organizzazioni degli ex combattenti d’Africa, che querelarono Del Boca, e dallo stesso Indro Montanelli che, orgoglioso della sua partecipazione alla guerra d’Etiopia come ufficiale subalterno, sostenne sempre che il nostro Stato maggiore non vi aveva fatto ricorso.
Se avesse avuto spirito, Del Boca avrebbe potuto rispondergli con una battuta del Mulo parlante Francis, protagonista di una fortunata serie cinematografica, all’imbranato sottotenente Peter Sterling: “Che cosa vuoi che conti nell’esercito un sottotenente?” Comunque, aveva ragione lui e la conferma venne proprio dalle alte gerarchie militari, nella persona del generale Corcione, che ammise l’uso dei gas tossici, sulla base della documentazione fornita dall’Ufficio Storico dell’Esercito. Montanelli chiese scusa a Del Boca, che a sua volta scrisse la prefazione a una riedizione delle sue memorie di comandante di un reparto ascari. Rimangono per altro aperte due considerazioni. La prima è che non si capisce perché l’Italia avrebbe dovuto rispettare le convenzioni internazionali quando non le rispettava l’Etiopia, che oltre a far uso delle pallottole dum dum evirava i prigionieri, regalandoci centinaia di “spadoni” (uno di essi è un personaggio del romanzo La stanza del Vescovo di Piero Chiara, il primo marito della protagonista, che si defila perché ormai privato degli attributi virili dalla barbarie abissina). Il secondo è che l’uso di gas nelle guerre coloniali era comune anche a Paesi democratici come la Francia, che poi ci avrebbero ipocritamente fatto la morale.
A tutto questo vorrei aggiungere un particolare inedito, o meglio edito, ma conosciuto da pochissimi. Nel 1985 Giulio Lensi Orlandi pubblicò un libro di ricordi di vita militare, intitolato Giovinezza. Lensi Orlandi era un singolare personaggio. Laureato in ingegneria, aveva fatto il corso allievi ufficiali di complemento a Lucca e prestato servizio in un corpo di artiglieria ippotrainata a Firenze. Poi, con suo disappunto (stava per entrare nell’Ufficio tecnico del Comune), era stato richiamato per la guerra d’Etiopia, dove per altro aveva combattuto valorosamente, meritandosi vari encomi. Dopo la seconda guerra mondiale era tornato all’Ufficio tecnico del Comune di Firenze, dove si era guadagnato la fiducia del sindaco La Pira, che l’aveva nominato ingegnere capo (La Pira, molto migliore dei lapiriani, valorizzava le persone al di là delle loro idee e dei loro precedenti). Andato in pensione, oltre a pubblicare molti saggi di storia dell’architettura, si candidò nel 1980 al Comune di Firenze come indipendente nelle liste del Movimento Sociale e fu eletto, con grande sorpresa di tutti e anche dei dirigenti del partito, che pensavano sarebbe servito semplicemente come portatore di voti, senza ottenere il seggio (ne fece le spese un futuro consigliere regionale e poi deputato, che non tornò a Palazzo Vecchio). Tutti si aspettavano da lui grandi rivelazioni di scandali, che non vi furono. In compenso al termine della sua esperienza amministrativa Giulio Lensi Orlandi Cardini pubblicò quel volumetto, che un paio d’anni fa mi lessi perché ero stato invitato a tenere una conferenza sulla palazzina del Mercato Centrale di Novoli, decoroso e funzionale edificio realizzato dietro suo progetto. In quelle pagine di diario confermava quello che Del Boca sosteneva da tempo, ovvero che i nostri usavano i gas. Scriveva di aver visto una bomba all’iprite inesplosa, sostenendo per altro che sganciarla era stata una sciocchezza e che avremmo vinto lo stesso la guerra: il che poi era la verità. Naturalmente nessuno lesse il libro – una modesta auto edizione per pochi intimi, poco più di un ciclostilato – e solo dieci anni dopo la verità emerse inconfutabile, per altre vie. Resta comunque un fatto: in guerra (e non solo) chi la fa l’aspetti. Come noi abbiamo pochi titoli per lamentarci dei bombardamenti a tappeto angloamericani, dopo il manifesto di Boccasile che inneggiava a Londra kaput, così gli abissini prima di lamentarsi per l’uso dei gas avrebbero dovuto perdere la cattiva abitudine di mutilare i prigionieri.
Bastava leggere il Diario di Ciano!
Del Boca dava il voltastomaco per la sua antiitalianità.
Mutilare i prigionieri ed usare le pallottole dum-dum…. Ma a me resta l’interrogativo di fondo. Ma che cosa ce ne facevamo dell’Impero di Etiopia, con popoli che ci detestavano, fonte di problemi e di nessun guadagno, anzi di investimenti per l’Italia troppo grandi?
Boccasile. Sì, ma noi facevamo disegni. Le bombe terroristiche della RAF sulle nostre città erano reali…
Non tutti gli abissini mutilavano i prigionieri, prerogativa soprattutto dei galla. Il fatto è che si cercava di nascondere il fatto all’opinione pubblica italiana per non generare timori! Dopo Adua i feriti (quasi sempre evirati) vennero fatti sbarcare di notte alla chetichella…. Ma che cavolo ci andavamo a fare da quelle parti? Ah, Crispi e Mussolini…
Purtroppo in Africa noi abbiamo scelto per ultimi. E i francesi ci fregarono la Tunisia, dove c’erano moltissimi italiani, andati lì per lavorare. Mussolini si sentiva un emulo di Crispi, e in effetti gli riuscirono due imprese che al suo predecessore non erano riuscite: l’intesa col Vaticano e la conquista dell’Etiopia. Certo, col senno del poi, il nostro colonialismo ha avuto un bilancio decisamente passivo. L’unica colonia che sarebbe stata redditizia era la Libia, ma non riuscimmo a trovare in tempo il petrolio e poi ci fu sottratta. Peccato, perché se fosse continuata la migrazione di coloni italiani sulla quarta sponda la nostra popolazione avrebbe superato di numero quella degli indigeni e un eventuale referendum non avrebbe avuto lo stesso esito che ebbe per l’Algeria quello voluto da de Gaulle, anche perché c’erano molti libici orgogliosi di essere stati al servizio del governo italiano e perché il governatorato di Balbo era ricordato con nostalgia.
Il solo modo di valorizzare l’Etiopia sarebbe stato di concedervi asilo agli ebrei perseguitati dai nazisti, che stentavano a trovare ospitalità nelle nazioni “democratiche” (vedi la vicenda del St Louis). C’erano già i Falascià, ebrei etiopi, e quindi il loro insediamento non sarebbe stato arbitrario. Con i soldi della diaspora l’Abissinia avrebbe potuto avere un grande sviluppo e forse sarebbe finita quella pressione migratoria verso la Palestina che ha destabilizzato il Medio Oriente. Naturalmente questo avrebbe presupposto che Mussolini non si legasse a stretto filo a Hitler. Oltre tutto la stampa nazionalista agli inizi della guerra d’Etiopia “tifava” per gli abissini e scommetteva sulla sconfitta dell’Italia. Fu solo la stupidità di Eden, insieme all’avvento dei Fronti Popolari, a spingerci nelle braccia della Germania, come del resto lo “schiaffo di Tunisi” ci aveva spinto ad aderire alla Triplice.