Giampiero Cannella – giornalista e analista di politica internazionale, già deputato, è autore del saggio per Historica “L’Italia non gioca a Risiko” – le forze armate italiane nelle missioni internazionali hanno conquistato un apprezzamento unanime. A cosa è dovuta questa eccellente referenza?
“Nel corso dei decenni, dal Dopoguerra ad oggi, le Forze Armate hanno conosciuto molteplici e profonde trasformazioni. Oggi l’Italia è dotata di uno strumento militare che, nonostante le limitazioni di bilancio, è considerato affidabile ed efficace. I nostri uomini e le nostre donne in uniforme, soprattutto dopo l’abolizione della leva obbligatoria e la professionalizzazione delle Forze Armate, hanno raggiunto altissimi livelli di efficienza sia nell’impiego in combattimento, sia nella gestione dei rapporti con la popolazione civile dei teatri di impiego. Qualità questa, incarnata perfettamente dai nostri carabinieri che non a caso sono richiesti dagli alleati in ogni parte del mondo come partner per missioni di addestramento, di peace-keeping, ma anche di peace-enforcing, operazioni dove l’uso delle armi può non essere un incidente occasionale. Ma anche i reparti dalle forze speciali, impiegate contro il fondamentalismo islamico in Afghanistan, Iraq e Africa insieme ai pubblicizzatissimi colleghi dei Seal e della Delta Force statunitense o dello Special Air Service britannico, sono apprezzatissimi. Insomma, il soldato italiano ha dimostrato di saper sparare, e bene, quando occorre, ma di saper “leggere” meglio di altri i segnali che provengono dal territorio e di essere in grado di creare un rapporto di empatia con i civili locali, qualità che spesso blocca sul nascere una possibile escalation ed evita il ricorso alle armi.
Come tutela l’Italia i suoi interessi geostrategici con le missioni internazionali?
“Bisogna partire da una premessa: in Italia esiste una tara culturale per la quale si considera la pace una condizione naturale e perpetua, eticamente sovraordinata a tutto e scontata. Sulla base di questo assunto, lo strumento militare è sempre stato guardato da ampi settori della politica e della cultura con diffidenza se non con ostilità. Questo ha condizionato le scelte di politica estera ed ha impedito al Paese una definizione chiara e netta di quali siano gli interessi nazionali da tutelare e a quale missione è votata l’Italia nello scacchiere internazionale. Una situazione che noi, che rappresentiamo pur sempre l’ottava potenza economica mondiale e godiamo di una invidiabile posizione geostrategica al centro del Mar Mediterraneo non possiamo consentirci, pena la perdita di rango sul piano delle alleanza e la marginalizzazione internazionale. Oggi il nostro Paese farfuglia in politica estera. Lo ha fatto in Libia, dove siamo stati trascinati dagli interessi di Francia e Gran Bretagna in una guerra che non volevamo combattere e dove siamo stati capaci, dopo aver vinto, di farci relegare al ruolo di gregari nientedimeno che dalla Turchia di Erdogan. Balbettiamo anche nel Canale di Sicilia dove non siamo in grado di assumere una postura che incuta il doveroso rispetto alle marine dei Paesi rivieraschi che spesso maramaldeggiano con in nostri pescherecci o con le nostre navi per la ricerca di idrocarburi. Detto questo però bisogna dire che alcune missioni internazionali hanno un senso ed effettivamente obbediscono a logiche ben precise. Tralasciando le operazioni in Afghanistan e Iraq, legate alle logiche politiche dell’alleanza contro il terrorismo islamico e figlie entrambe dell’11 settembre 2001, le missioni nel Golfo di Guinea e nel Corno d’Africa contro la pirateria sono essenziali per consentire la libertà di navigazione in due rotte essenziali per i traffici commerciali da e verso il Mediterraneo. Tra l’altro, la missione “Gabinia” della Marina militare nel Golfo di Guinea, contribuisce anche a garantire la sicurezza degli impianti Eni presenti in Nigeria, Ghana, Gabon e Costa d’Avorio. Così come le operazioni in Niger e Mali, oltre che in Somalia, sono utilissime per intercettare alla fonte il traffico di esseri umani, spesso gestito da organizzazioni islamiste, diretto dal deserto verso i porti della Libia. Anche le missioni nei Balcani e in Libano hanno un senso, considerato che si tratta di regioni instabili interessate dal traffico di armi e droga, oltre che da fenomeni terroristici. Eppure, nonostante l’Italia impieghi più di settemila militari all’estero, la politica non riesce a capitalizzare lo sforzo del nostro strumento militare. Non riusciamo a creare partnership stabili e ad estendere la nostra area di influenza, a differenza di quanto altri Paesi molto più intraprendenti e spregiudicati. Subiamo l’iniziativa di competitor più aggressivi come la Turchia, che ci sottrae spazi politici in Nordafrica, ma anche in Albania e nel Mediterraneo, siamo passivi rispetto alle “intemperanze” del generale Haftar e restiamo passivi di fronte all’Algeria che estende la sua Zee (Zona economica esclusiva) fin quasi a ridosso delle spiagge della Sardegna. Insomma, ci rifiutiamo di recitare il ruolo che naturalmente dovremmo avere, cioè quello di potenza regionale proiettata nel bacino euroafroasiatico con la missione di contribuire alla sicurezza e alla stabilità dei Paesi rivieraschi e garantire la libertà di navigazione”.
Quanto investe l’Italia per la Difesa? C’è spazio per elevare le risorse stanziate per il settore?
“Le risorse dedicate alla Difesa sono ben lontane dalla soglia del 2% del Pil nazionale stabilita dalla Nato. La legge di Bilancio del 2020 ha previsto stanziamenti pari all’1,38% per il 2020, all’1,30% per il 2021 e all’1,20% per il 2022. La ripartizione della spesa per il 2020 prevede il 67,6% dei fondi destinati al personale, il 14% destinato all’esercizio e il 18,3% agli investimenti. Non va meglio prendendo in considerazione i fondi del Budget della Difesa, cioè gli stanziamenti del Bilancio ordinario ai quali si sommano i finanziamenti delle missioni internazionali ed i contributi messi a disposizione del ministero per lo Sviluppo economico per ricerche e programmi ad alta valenza tecnologica. In questo caso la percentuale rispetto al Pil, per il 2020 è dell’1,57 %, ben lontano dall’obiettivo indicato dall’Alleanza atlantica. Ad oggi, comunque, soltanto quattro Paesi superano la soglia stabilita: Grecia, Regno Unito, Estonia e Lettonia, ma l’Italia si colloca comunque ben al di sotto della media dell’1,48 % raggiunta dagli altri Stati europei. Certo, lo spazio ci sarebbe, ma è una scelta politica che dubito possa essere nelle corde della classe dirigente che attualmente governa il Paese e che mostra una chiara miopia geopolitica”.
Qual è la missione internazionale dove i militari italiani hanno brillato di più per efficienza?
“Difficile stilare una graduatoria, ogni missione ha le sue peculiarità. Diciamo che, ad esempio in Afghanistan, dove abbiamo registrato 54 caduti, i militari italiani si sono confrontati con uno scenario molto impegnativo di tipo combat ed hanno fatto un salto di qualità operativo non indifferente. Le esercitazioni e i tiri nei poligoni sono essenziali, ma l’impiego tattico in ambiente ostile è un’altra cosa. I nostri soldati hanno superato prove durissime meritandosi il rispetto di alleati e facendosi temere anche dai talebani, che, non a caso, quando hanno affrontato gli Italiani lo hanno fatto quasi esclusivamente con attentati predisposti attraverso l’uso di IED, gli ordigni improvvisati, mai con uno scontro diretto ravvicinato. Sia in Afghanistan che in Iraq, poi, gli uomini “invisibili” delle nostre forze speciali hanno combattuto e combattono tutt’ora (accade nel Kurdistan irakeno) una guerra vera contro ciò che resta dell’Isis. Questi impegni hanno fatto fare un salto di qualità anche nella dottrina militare italiana, che dopo la “battaglia dei ponti” a Nassiriya e i successivi impieghi in combattimento, si è allineata sugli standard operativi più avanzati di Stati Uniti e Gran Bretagna. Di natura diversa e, per altri versi importante, è la missione Unifil in Libano, dove i militari italiani presidiano la Blue Line che divide la parte di territorio del Paese dei Cedri controllato da Hezbollah, dall’area presidiata dai soldati israeliani. Qui all’autorevolezza dei cannoni da 105 delle blindo Centauro che incutono un certo rispetto, si associano le riconosciute capacità diplomatiche dei nostri uomini in divisa, abili a districarsi tra i soldati di Tel Aviv e le milizia filo-iraniane, il mix ha prodotto ottimi risultati. Lo stesso si può dire delle già citate missioni antipirateria della Marina militare nell’Oceano Indiano e nell’Atlantico”.
Si chiude la parentesi della missione in Afghanistan, è possibile tracciare un bilancio?
“Il bilancio temo non sia proporzionato all’impegno profuso, sia in termini di risorse che di vite umane. L’Italia ha deciso il ritiro dopo la decisione di Washington di abbandonare il teatro afghano a seguito di una trattativa con i Talebani. Una scelta che avrà conseguenze molto negative per il processo di stabilità e democratizzazione del Paese. Il governo di Kabul è stato finora sostenuto dalla coalizione internazionale e le sue forze armate, faticosamente rimesse in piedi, hanno operato grazie al supporto indispensabile dei contingenti Nato. Uscito a brandelli da una lunga teoria di invasioni e guerre civili, le fragili istituzioni afghane devono fronteggiare contemporaneamente, in un contesto etnicamente composito, il ritorno della minaccia fondamentalista, presente non soltanto con i Talebani, ma con le cellule dell’Isis e di al Qaeda tutt’ora attive e l’arroganza dei signori della guerra produttori di droga. I mujaheddin nostalgici dell’Emirato islamico dell’Afghanistan controllano buona parte delle aree rurali di un Paese vasto, con scarse e infrastrutture, nessuna ferrovia e una sola autostrada. Il controllo del territorio è stato finora garantito, con un alto costo di vite umane, proprio dai soldati della Nato che hanno schierato unità militari di prim’ordine e risorse tecnologiche avveniristiche. Gli uomini dell’Afghan National Army hanno potuto contare su addestratori statunitensi, britannici o italiani, hanno operato spalla a spalla con operatori della Delta Force, dello Sas o del Col Moschin, hanno avuto la certezza che in caso di bisogno un paio di jet o una cannoniera volante statunitense li avrebbero protetti dall’alto contro un nemico invisibile e letale. Ma a partire dal giorno in cui si ricorderà per il ventesimo anno l’attacco alle Torri Gemelle, tutto questo sarà storia vecchia. Ammainare le bandiere dei contingenti internazionali significa mettere in serio pericolo di vita decine di migliaia di poliziotti, militari, semplici interpreti, funzionari “colpevoli”, agli occhi del fondamentalismo, di avere contrastato il movimento talebano, per non parlare della minaccia che peserà sul ruolo delle donne o sulle libertà che hanno potuto assaporare, dopo anni di dittatura islamista, centinaia di migliaia di giovani. L’Afghanistan potrebbe, in breve tempo, trasformarsi nuovamente in un incubatore di terrorismo internazionale. Un film già visto in Iraq, con la ritirata Usa alla fine del 2011 che aprì la strada all’offensiva dell’allora neonato Isis. I tagliagole di al-Baghdadi, senza le truppe americane sul terreno, ebbero gioco facile e l’apparato militare irakeno si sciolse come neve al sole cedendo allo Stato islamico ampie porzioni di territorio. Sotto il profilo geopolitico, poi, il ritiro dell’Occidente apre la strada all’ingresso in Afghanistan di nuovi e antichi attori. Il Paese asiatico, ricco di rame, cobalto, litio, ferro, oro e terre rare indispensabili per le nanotecnologie, è nel mirino di grosse compagnie internazionali. I Cinesi hanno da tempo iniziato, insieme agli Indiani, una politica di penetrazione commerciale che mira all’acquisizione di queste risorse naturali. Ma non solo, India e Pakistan, eterni nemici, finora si sono confrontati a distanza nel teatro afghano, con il disimpegno occidentale questo equilibrio potrebbe rompersi. Nuova Delhi è tra i maggiori sponsor dell’attuale governo di Kabul, il Pakistan, invece, storicamente sostiene i Talebani ai quali offre supporto sul terreno, per mezzo dei suoi servizi segreti, e solidarietà politica. Alle spalle di Islamabad la Cina, alleata dei pakistani, che potrebbe accarezzare l’idea di un sostegno forte ai Talebani per condurre il Paese asiatico all’interno della sfera d’influenza di Pechino. Insomma, ho paura che in Afghanistan il processo di democratizzazione e di liberazione dal fondamentalismo rinculerà verso una nuova era di terrore e instabilità”.
Che ruolo possono svolgere le forze politiche patriottiche per conferire maggiori mezzi alle forze armate italiane impegnate nello scenario globale?
“Ritengo che le forze politiche patriottiche, riconducibili in Italia sostanzialmente al centrodestra, possano operare in due direzioni, una culturale e l’altra politica. Nel primo ambito sarebbe auspicabile un impegno concreto per sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica e soprattutto i giovani, sull’evidenza che possedere un apparato militare moderno, credibile ed efficiente, non vuol dire “voler fare la guerra”, ma significa offrire allo strumento diplomatico il necessario complemento per essere efficace. La feluca senza la spada non vale nulla in una controversia internazionale, così come in una semplice trattativa. Se l’ambasciatore non ha alle spalle, sullo sfondo, uno strumento di deterrenza capace di “non indurre in tentazione” resta impotente al cospetto dell’interlocutore. E dall’efficacia della nostra azione diplomatica, che geopoliticamente si sviluppa anche inviando la Cavour al largo della Cina o i bersaglieri in Niger, può dipendere la sicurezza ma anche gli standard di benessere economico del nostro Paese. Merci, materie prime, idrocarburi e tecnologie sono elementi essenziali della nostra quotidianità. Sotto il profilo prettamente politico, invece, è chiaro che bisogna investire di più e meglio nel settore della Difesa che, tra l’altro, annovera aziende leader nel settore. Abbiamo una Marina efficiente ma che necessità di nuove navi, visti gli impegni, anche lontani dal Mar Mediterraneo che si profilano all’orizzonte, abbiamo bisogno di dotare l’Esercito di strumenti di comunicazione e veicoli da trasporto e combattimento sempre più performanti, occorrono maggiori risorse per la cyber-security e dobbiamo mantenere elevatissimi gli standard della nostra componente aerea. Insomma, se vogliamo contare di più sul piano internazionale, dobbiamo investire in sicurezza”.
Verissimo. Peccato che siano sempre missioni sbagliate e condannate al fallimento.
Non riusciamo manco a far funzionare la spazzatura, non dico gli appalti pubblici ecc., di molte grandi città e vogliamo…democratizzare l’Afganistan! (che non mi pare, peraltro, aspiri in gran maggioranza ad essere democratizzato…).
L’Afghanistan è stato occupato per 20 anni e gli occupanti han solo fatto le infrastrutture che servivano per l’occupazione, cioè deteriore colonialismo, questa purtroppo è la realtà. Altro che efficienza. Miopia. Certo che i talebani sono accolti a braccia aperte!