La sua nascita e i primi vagiti un po’ burrascosi. Padre ateo e madre religiosa, un battesimo segreto, clandestino, e viene albergato all’Istituto degli Innocenti con altro cognome.
Nella prima gioventù legge tanto da rovinarsi gli occhi. È alto, dinoccolato e occhialuto. Soffre di una forte miopia che gli impedirà di arruolarsi per la Grande Guerra. Quella che definisce la sola igiene del mondo, e: “finalmente è arrivato il giorno dell’ira!” Passa la spugna sul suo “Freghiamoci della politica” per sposare l’interventismo. Ecco l’innamoramento: “Amiamo la guerra!”
Nel 1903 lo troviamo con Prezzolini sulla rivista Leonardo dove shakera un cocktail di pragmatismo, irrazionalismo e volontà di potenza. E insiste sull’inesistenza della verità, “Non c’è verità che nella menzogna voluta e organizzata.” Propende per un utilitarismo aggressivo, una dottrina ben accetta perché stabilisce che è utile ciò che aumenta il piacere e diminuisce il dolore.
Si mette in evidenza per la sua veemenza, i suoi scritti sono sassi scagliati con rabbia. Mario Isnenghi celebra il suo humus: furore cinico e sovvertitore, lazzaronismo o teppismo intellettuale. Gramsci inveisce e lo definisce: uno sparafucile che fracassa i vetri per conto dei venditori di vetro. E da lui stesso la conferma: “Io sono un teppista, è arcivero. M’è sempre piaciuto rompere i coglioni altrui.”
Il 20 Febbraio del 1909 a Parigi su Le Figarò esce il manifesto futurista di Marinetti. Venti centesimi ben spesi a fronte del gran programma innovatore. E nel nome di un progresso “monstre” non si salvano i musei e le biblioteche. Neppure i cimiteri e il culto della morte e della vecchiaia. Una avanguardia che supera ogni confine raggiungendo persino la Russia dove è raccolta dal Poeta Majakovskij. Il cubofuturismo russo, ma in questo più che l’esaltazione della civiltà industriale c’è una violenza anarchica antiborghese. Lui si getta a capofitto nella nuova avventura e fonda il futurismo “fiorentino”. Aggiunge che l’arte si trova nel gioco infantile perché senza regole. Joan Mirò ha preso da lui?
Frequenta il Caffè delle Giubbe Rosse a Firenze, il nome dagli smoking rossi dei camerieri. Il locale è nato sulle rovine del Mercato Vecchio, ed è la culla dei futuristi de Lacerba. Nella terza saletta Palazzeschi e Soffici con Boccioni leggono il manifesto di Marinetti. Ma sarebbero volati anche sonori schiaffoni nelle dispute impetuose. Più avanti Montale a quei tavolini avrebbe redatto la rivista Solaria.
Il futurismo? Una furia iconoclasta che resterà astratta, lontana dalla realtà, e tutto finirà nell’imbuto tritatutto della disciplina militare di lì a poco. Si salverà solo l’attivismo utile per gli assalti alla baionetta. Nella cruenta officina parecchi degli adepti ci lasceranno la pelle.
Intanto Prezzolini reduce dall’esperienza de La Voce nel dopoguerra si rifugia nel ruolo di italiano inutile. Dopo il fallimento di far prevalere l’intelligenza e la ragione al disopra dei politici in conflitto. Auspicio rimasto sempre vano nei tempi.
Nel 1913 il nostro scrittore pubblica Un uomo finito, la sua autobiografia.
E dentro c’è il suo sangue che gorgoglia come un mosto, si rinnova, e la botte si fa stretta. Rifiuta la pochezza che gli offre la vita ma infine deve arrendersi alla disfatta sua e degli intellettuali della sua generazione. All’impotenza che li soverchia. Il libro ha un notevole successo e viene tradotto in parecchie lingue.
Famoso bestemmiatore ha con la religione un rapporto molto rissoso arrivando a beccarsi delle denunce. Nel suo libro “Memorie di Dio” c’è un Dio inesistente che invita tutti gli uomini del mondo a farsi atei subito.
D’altronde per i toscani bestemmiare è come dare il buongiorno ai santi. Ma lui nel 1921 sorprende tutti con la sua Storia di Cristo, il libro della conversione. Da bestemmiatore ad apostolo di Dio.
“Chi vive cambia,” la pavida giustificazione non sufficiente. Malgrado le 500 e passa pagine le motivazioni della sua nuova vita rimangono come celate da una sorta di pudore. È come se si arrendesse al fatto che le sue parole, per la prima volta, non sono capaci di rivelare quel fascino, quell’immensa visitazione.
Siamo ai fasti del fascismo, al consenso, e lui è consenziente. Fatto che gli costerà l’ostracismo letterario nel secondo dopoguerra. Ma è apertamente contrario al razzismo che specifica essere cenciume di scienza sbagliata della superbia germanica.
Erano i giorni nei quali Malaparte scriveva: Il fascismo, rivolta popolare contro il moderno. Noi crediamo nell’avvento di una nuova civiltà che non sarà borghese o proletaria. Abbiamo l’una e l’altra egualmente in odio.
Nel 1937 scrive la storia della letteratura alla quale Giacomo Debenedetti riserva diverse pagine nei suoi saggi per contestare il ranking riservato ai convenuti e lo score assegnato loro. Lo ritiene un padrone di casa invadente, accusa il riflesso che si crea e lo scranno sul quale l’autore si asside. Assolve un Cecco Angiolieri che ben conosciamo! Anche la Civiltà Cattolica gli rimprovera che nel fare il ritratto degli altri ha dipinto un suo gigantesco affresco.
Nel 1944, nel Santuario della Verna sull’Appennino Toscano, conclude il suo percorso religioso divenendo Terziario francescano. E prega: “Signore ritorna! Abbiamo bisogno di Te, o Cristo. Noi ti preghiamo, Gesù, che Tu ritorni ancora una volta, fra gli uomini che ti uccisero, che continuano ad ucciderti, per ridare a tutti noi assassini, nel buio, la luce della vita vera. Tu solo sei la pace!”
Il suo nome? Eccolo: Giovanni Papini, o fra’ Bonaventura, da Firenze.
Buon scrittore, ma politicamente….
…il vero bischero era lui! Come Soffici…