Spatriati, l’ultimo libro di Mario Desiati, uscito nella collana Supercoralli di Einaudi, è l’occasione per una riflessione sull’opera di questo “figlio della Puglia”. Dopo più di una quindicina di libri, tra romanzi e raccolte di poesie, si delinea, chiara, la sua visione artistica, che si organizza intorno ad alcuni temi ricorrenti. A monte vi è “la letteratura delle cose”, che egli, da caporedattore di “Nuovi argomenti”, ha coltivato, in collaborazione con Enzo Siciliano. Essa si traduce, nella poetica del “muretto a secco” una costante della sua produzione. I muretti a secco, elementi caratteristici del paesaggio della Valle d’Itria, in cui Desiati è vissuto e in cui, ancora oggi, trascorre lunghi periodi, sono ”radici” che permettono al terreno di non smottare e alla euforbia, alla ginestra spinosa, alla reseda alba, al finocchio comune all’asparago pungente di germogliare, “nascondigli” per lepri o conigli, “confini” da valicare con l’immaginazione, Metafora di ‘radici’, dunque. Le radici, amate e deprecate, sono, infatti, un motivo ritornante nell’opera dello scrittore, da Ternitti, finalista nella cinquina dello Strega 2011, a Spatriati. Mimì Orlando, la protagonista del primo, spinta da necessità, lascia la Puglia dorata per trasferirsi nella grigia Svizzera, nel secondo, Claudia Fanelli abbandona la natìa Martina Franca per Londra, Milano e Berlino, animata da un’improrogabile voglia di libertà.
Altro tratto comune alla narrativa dello scrittore martinese si rinviene nella ipotiposi della figura dell’inetto. Fratelli di sangue di Emilio Brentani, Vitangelo Moscarda, Pietro Rosi, gli incapables de vivre di Desiati spesso sono costretti a vogare contro vento “con gli occhi chiusi”. Afflitti da un potente e frustrante complesso di Edipo, sono schiacciati dalla nemesi paterna. Francesco Veleno è inconcludente come suo padre, “un ex atleta dilettante” che l’ha cresciuto “con la strana idea” che l’avrebbe riscattato “dal misterioso incidente di averlo messo al mondo”. Sul rapporto padre-figlio indaga gran parte della letteratura del Novecento. Spesso i personaggi di carta nascondono figure paterne ingombranti e soffocanti. William Morel, che ricopre il ruolo del padre in Figli e Amanti di D. H. Lawrence, e Simon Daedalus nell’Ulisse di Joyce, possiedono una straordinaria e quasi animalesca vitalità, da cui i figli sono atterriti e affascinati. Non diversamente, Martino Bux recrimina “mio padre, grandi braccia e una faccia piena di spigoli, portava il proprio cognome come un’onta e un figlio soldato sarebbe stata un riscatto”. Quanto il padre è “integratissimo nella vita locale” e nel contesto politico con la sua “tessera del Movimento Sociale”, tanto il figlio è un contemplatore inattivo: “mi incuriosivano i cinema a luci rosse, sentivo che là c’era la vita….a volte per ammansire la smania sbirciavo tra le riviste porno in edicola”. Gli antieroi dello scrittore pugliese sono marginali, bloccati e ingessati, si accontentano di fantasticare grandi imprese, difficilmente le compiono. Si riverbera in questo cliché l’ampio spettro di sopraffine letture. Nei suoi “spatriati” incerti, disorientati, vagabondi, girovaghi a volte anche senza padre, come egli stesso spiega, alla fine dell’omonimo romanzo, nelle “Note dallo scrittoio o stanza degli spiriti (un omaggio a Robert Walser de La passeggiata), si riflette la lunga e corposa teoria di spiantati del romanzo tra Novecento e anni Zero Zero. Camminatori incerti e vacillanti, i personaggi di Walser mancano di punti di riferimento, parallelamente i tipi di Desiati spaziano in un contesto vischioso e liquido che li porta a cercare affannosamente un mitico altrove. Spesso un’altra città nella quale si sentono ancora più esclusi e spaesati. Francesco Veleno raccoglie tutto il coraggio di cui dispone e si trasferisce provvisoriamente a Berlino. Martin Bux abbandona la sua Sicilia e emigra a Roma.
La dicotomia città/campagna, altro motivo residuale dell’intero arco letterario primonovecentesco, costituisce l’ossatura di buona parte della scrittura del nostro autoref. Tra Strapaese e Stracittà, Desiati pencola. Indubbiamente, la campagna tarantina rappresenta il rifugio dal materialismo delle macchine, dal precariato anonimo, ma può diventare una gabbia che intrappola le aspirazioni di tanti giovani simili a Claudia Fanelli (Spatriati), un’arena, all’ombra del Siderurgico, in cui ci si deve “addestrare come cani da combattimento” (Saviano), così capita a Zazà e Veleno (Il paese delle spie infelici), o un crogiolo in cui si distillano tutte le dicerie e le maldicenze (Il paese delle spose infelici e Ternitti). Tale lembo, assolato e abbacinante, pur rimanendo preda di un disagio morale, analogamente all’Italia, non perde, almeno in principio, comunque, “quell’aurea esotica, innervata da un folclore arcaico che consola” (Saviano).
Città piena di contraddizioni, Roma è protagonista di Vita precaria e amore eterno e di Candore. Essa appare melmosa e paludosa, a Martin Bux, che la osserva da un’angolatura particolare, sotto il livello della strada, in un call center che sembra più che altro una “fabbrica fordista”: “Una finestrina, impercettibile al mondo intero, ci collega con il resto della città. Da lì vediamo le gambe della gente, i cani che pisciano e le ruote delle moto”. La bellezza della capitale è solo immaginata, relegata al passato. Al contrario, essa si trasforma in un gigantesco bolo in cui il Grande degrado fagocita la Grande Bellezza e il “mondo di mezzo e suburra, il centro storico cartolinato e la periferia da western urbano” (Christian Raimo, Roma non è eterna -Chiarelettere) si confondono. La metafora della città capovolta, simbolo della fine dei valori umanistici e del tramonto della ragione, già motivo pasoliniano, riaffiora in molti narratori contemporanei, da Nicola Lagioia de La città dei vivi, allo stesso Christian Raimo de Il peso della grazia, a Giancarlo De Cataldo di Suburra o di Romanzo criminale. In Candore – dichiara Desiati in un’intervista- si raccontano le contraddizioni di Roma, “la sua enorme carica trasgressiva”, nascosta “nelle pieghe profonde dei quartieri centrali”, e, nel contempo, e “le speranze culturali inappagate e le illusioni perdute” di molti giovani.
Berlino appare la metropoli europea più cool, esagerata, ricca di opportunità e di libertà, qui “si amava, si perdeva, si lavorava, si mangiava, si falliva e si ricominciava, senza mai sentirsi uno zero”. Berlino è underground, formicolante di night club: tal è il Berghain, in cui un buttafuori, inedito cerbero metropolitano, sancisce il destino di una sera. Tra luci al neon, si consumano strani rituali notturni, “una mescolanza di sudore e cannabis…droghe sintetiche e sesso soffuso”. Una bolgia infernale in cui accade di tutto “studi scientifici che cercano cavie per testare nuove medicine”, “fabbriche abbandonate, sotterranei antiaerei, rimesse di periferia” segnalati da “lucine rosse e azzurre, “clubbers in giro per la città”. In buona sostanza, la grande città è osservata dalla prospettiva di un provinciale in bilico tra il grande salto verso il mondo moderno e il desiderio di non separarsi dal “piccolo mondo antico” della vita borghigiana. Tutta “la letteratura nazionale – riteneva Gramsci- è, in buona sostanza, letteratura di provincia”, capace di cogliere “significati e valori” assenti “nella Storia”, ma presenti “nell’eredità” di un territorio. Provincialismo, dunque, non è sinonimo di chiusura e asfissia, perché, altrimenti, sarebbero miopi e provinciali i più grandi scrittori americani contemporanei, dal capostipite William Faulkner, a Flannery O’Connor, a Richard Ford a Elisabeth Strout. In tutti questi autori, i luoghi sperduti, scelti come ambientazione dei loro romanzi, grazie alla sottile lama del loro sguardo, divengono lo specchio di un orizzonte più ampio. Anche
Scotellaro, Alvaro, Silone descrivono la trasformazione del Sud rurale per rappresentare la miserevole chimera di un’incerta modernità. Desiati si pone su un piano alternativo. Influenzato dal “pensiero meridiano” di Franco Cassano (citato espressamente in Spatriati parte 2), crede nella rinascita del Sud a partire dal rilancio dei suoi valori, la lentezza innanzitutto, purché si eviti di cadere nella trappola dell’imitazione di modelli “nordisti” alieni e irrealizzabili.
Altro motivo caro al poeta martinese è l’amour fou. La passio che, colpendo i sensi, annebbia la ragione e tutto sconvolge, paradigma della poesia trobadorico-cortese, viene da lui riattualizzato. Non a caso, è così intitolato un libretto pubblicato qualche anno fa insieme a Marina Sagona. È follia d’amore quella che lega per sempre la giovane allieva Eloisa al vecchio e sapiente professore Abelardo. Il celebre modello ispira, a ruoli ribaltati, Il libro dell’amore proibito: Donatella Telesca e Francesco, detto Veleno, al pari degli eroi medievali, pagano il fio di una relazione impossibile. L’amore è ispezionato in tutta la sua fenomenologia, come sentimento capace di nobilitare e come esperienza ambivalente, fondata sulla compresenza di desiderio erotico e tensione spirituale. Eros e Agape, in conflitto tra loro, agitano l’animo di Francesco Veleno, il protagonista di Spatriati.
Quale un cavaliere cortese, Martin Bux (Vita precaria e amore eterno) prova un’adorante devozione per la sua “madonna” Toni: “percorso sacrale, un’immagine fissa che l’accompagna ….e che gli fa recitare “sono precario in tutto tranne nell’amore, per Toni compirei qualunque crimine”.
La componente voyeuristica del sesso è, invece, rappresentata, con disarmante pudicizia e incanto, nel penultimo romanzo Candore.
In conclusione, Desiati costruisce un romanzo tradizionale, sovrapponendo temi massimalisti e innovativi, con una prosa limpida e tersa, innervata da citazioni ricercate, meticciando codici linguistici, italiano aulico, idiomi locali, e in ultimo, il tedesco.
Senza dubbio alcuno, egli è tra le voci più potenti e liriche della generazione dei tq.