Per gentile concessione dell’editore Idrovolante, pubblichiamo un estratto dell’ultimo romanzo di Mario Vattani, ambasciatore d’Italia designato a Singapore. “Rika” (Idrovolante Edizioni, pp. 240 – euro 18,00) completa la trilogia nipponica con dopo “Doromizu” e “La via del Sol Levante”. “Rika” è un inno al coraggio e alla volontà di non mollare.
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Nel silenzio sento avvicinarsi le ciabatte di Mahir.
Ma intanto è come se la faccia di Rafiq cambiasse colore. Mi fissa dritto negli occhi, ha le mani aperte sul tavolo. Le labbra gli si sono strette sui denti, i suoi lineamenti si sono completamente tirati, tanto che adesso ha il volto di un vecchio, anzi di una vecchia, una vecchia isterica. Mi viene in mente che sua madre dev’essere così.
Poi sibila qualcosa che si trasforma subito in un grido secco.
“Allora lo vedi che sei una puttana!”
Forse non ho capito bene. Spero di non aver capito bene. Sento un tremore dietro lo sterno, che immediatamente diventa una vibrazione nelle tempie. Dal bruciore che sento negli occhi, penso che debba averli completamente sgranati. Ma ho anche una sensazione di vuoto in mezzo alla pancia, dietro lo stomaco, che non riesco a definire, è come se il cuore non avesse più nulla intorno.
“Cosa hai detto?”
Mahir mi raggiunge velocemente da sinistra, e fa un lunghissimo “shhhhh”.
“Mi hai sentito! Sei una puttana! Una puttana giapponese!”
Rafiq sbatte tutte e due le mani sul tavolo, talmente forte che mi si chiudono gli occhi. È la seconda volta stanotte che faccio strusciare la mia sedia sul pavimento alzandomi da tavola di scatto, ma adesso mi ritrovo di colpo seduta, perché Mahir mi spinge con una mano sulla spalla sinistra, e con l’altra fa segno al suo amico di calmarsi.
Non capisco bene tutto quello che sta gridando Rafiq, che adesso si è alzato in piedi mentre Mahir mi tiene ferma sulla sedia. Cerco di scrollarmi di dosso questa mano, perché non mi va che mi tocchi in questo modo, ma non so su chi dei due devo concentrarmi, perché dall’altro lato del tavolo Rafiq sembra impazzito, riesco a comprendere solo degli spezzoni di frase, dice che mi ha aiutato, che mi ha accompagnato, mi ha offerto da bere e da mangiare, dice che i turisti sono tutti uguali, sono come gli italiani, e anche io sono così.
“Gente che ti disprezza, ti maltratta, ti dice sempre di no, senza nemmeno guardarti negli occhi, senza mai restituirti nulla, sempre con la menzogna, con la cattiveria.”
Non so cosa stia succedendo ma so che devo andarmene, rapidamente. È come se mi fossi svegliata all’improvviso, trovandomi qui per caso.
Come sono finita qui stanotte?
Oggi pomeriggio ero ai Musei Vaticani.
Cerco di alzarmi, ma di nuovo Mahir mi spinge giù. Oggi ero ai Musei Vaticani, devo alzarmi e andarmene
di qui. Mi volto a guardare Mahir, il suo volto ha un’espressione incomprensibile, è come se mi stesse dicendo di stare tranquilla, di fare finta di niente perché lui cercherà di calmare il suo amico. È questo che vuole dirmi, che Rafiq è un pazzo? Ma a me non interessa nulla, io devo andarmene, subito. Immediatamente. Devo tornare in albergo da mia madre, da mia sorella. Devo andare a Firenze, a Venezia, e poi devo
tornare a Tokyo.
“Tirano sul prezzo per un giocattolo di plastica, per un
cappello, per un ombrello, cercano di spillarti due o tre euro, a te che sei in strada dalla mattina alla sera, senza nemmeno un posto dove lavarti, dove dormire.”
Sta gridando talmente forte che gli viene un colpo di tosse, deve fermarsi e inghiottire.
“Gente che pensa di poter comprare tutto, gli uomini, le donne, e le donne poi sono le peggiori, non ti rivolgono nemmeno la parola, nemmeno se sei amichevole, nemmeno se sei rispettoso.”
Per un attimo la mano di Mahir allenta la pressione. Faccio un tentativo di mettermi in piedi.
“Lasciami!”
“Anche se sei gentile con loro, queste maledette puttane
ti trattano come una bestia. Solo per sfruttarti, allora fanno finta di essere generose, comprensive. Però sanno farsi scopare per bene, quando serve, eh?”
Fa una grande risata fasulla, allontanandosi dal tavolo.
Cerco di nuovo di tirarmi su, ma Mahir aumenta la forza con cui mi spinge in basso, fa ancora “shhh, shhh” per farmi stare buona, si sporge su di me, e con la mano sinistra vuole addirittura afferrarmi l’altra spalla.
“Lasciami!”
Ora Rafiq ha il dito puntato verso di me, e non c’è modo di farlo smettere. È pazzo. Devo andarmene, devo andarmene di corsa.
“Ho detto lasciami andare!”
“Anche tu sai farti scopare, vero puttana? Quando hai bisogno di qualcosa, eh? Sei stata con me tutto il tempo, sei venuta fino qui, ma guai a toccarti, guai ad avvicinarti, vero? E se avessi avuto una bella macchina, che avresti fatto? Che avresti fatto, puttana? Mi avresti trattato così? Pensi che sia un mendicante, io? Pensi che sia il tuo schiavo? Che debba accompagnarti in albergo?”
Mahir adesso si è girato ed è riuscito a piazzarsi dietro di me, e ho le sue mani ai due lati del collo, mentre provo a divincolarmi. Non riesco a vederlo, ma sento che adesso sta ridendo, si sta sbellicando dalle risate.
“My brother! Ma che diavolo ti ha fatto questa ragazzaccia?”
Mentre ride, mi spinge giù con forza.
D’un tratto Rafiq spazza via con un calcio la sedia che ci separa, e inizia a fare il giro del tavolo, per raggiungermi.
“Lo sai che ti dico, puttana? Che bisogna sbatterti nuda per strada, capito? Altro che albergo. Per strada, bisogna sbatterti. Nuda come un verme. Lo devono vedere tutti, che razza di puttana sei, capito?”
Mahir scoppia di nuovo a ridere.
Mi si gela il respiro nella gola.
È come se mi spuntassero migliaia di spilli sotto il dorso delle mani, nelle braccia, nelle ascelle, lungo tutta la spina dorsale, ma forse è sudore, sì dev’essere sudore perché lo sento, freddissimo, sul cranio, nei capelli, o forse sono tutti i peli del corpo che si raddrizzano, come per un vento ghiacciato, uno per uno, all’infinito.
“Sì, bisogna sbatterla per strada nuda come un verme, questa maledetta puttana! Vieni qua!”
Rafiq prova ad afferrarmi il braccio destro, sempre con quella faccia stravolta da vecchia isterica, ma con un colpo di reni mi scanso. Sento che la mano di Mahir mi scivola dalla spalla sul petto. Preme forte, mi fa male, non capisco se voglia solo fermarmi, ma ora anche con l’altra mano mi stringe il seno, prendendomi da dietro.
“Ho detto lasciami! Lasciami!”
È come se un pistone mi scoppiasse dentro, e mentre mi esce dai polmoni un grido altissimo, riesco finalmente a tirare giù le spalle e a scivolare in avanti sulla sedia, finché le mani di Mahir non hanno più presa. L’ingresso è a pochi metri, e io salto su di nuovo, con il cuore che mi pompa forte nel torace, mentre il tavolo gira su se stesso andando a finire sulle gambe di Rafiq. Mahir prova ad afferrarmi, ma inizio a sgomitare una, due, tre, dieci volte, finché con un ultimo strattone mi libero. Ecco, ora devo raggiungere di corsa la porta.
Non capisco perché sono ancora qui accanto al tavolo, nonostante mi stessi lanciando verso l’uscita. Per un momento non sento più rumori, perché mi fischia l’orecchio sinistro. Ho l’impressione che intorno a me giri tutto quanto molto lentamente, la tovaglia rossiccia, il soffitto color crema, ma poi mi accorgo che è la mia testa che sta girando. Ecco, ho appena sbattuto con la tempia sul pannello di ottone ossidato del termosifone accanto a me, lo sento prima vibrare e poi avverto lo schiocco doloroso del metallo quando il mio orecchio entra in contatto con il radiatore.
Devo essere inciampata, ho dato una testata, e mi accorgo che mi trovo molto più in basso di prima. Sono per terra, vedo l’intelaiatura del tavolo al quale eravamo seduti, il muro di mattoni, Rafiq che mi fissa con la bocca spalancata, anzi no, non me, i suoi occhi sono puntati su Mahir. La testa, per inerzia, mi sta di nuovo girando dall’altra parte, sta tornando indietro, e anche il ricordo dell’ultima frazione di secondo mi scorre davanti agli occhi.
All’improvviso mi tuona di nuovo nei timpani tutta la confusione che ho intorno. Non è vero, non sono affatto inciampata, è stato uno schiaffo, una fortissima manata sul lato sinistro del volto, un unico colpo che mi ha spedito giù in basso. Sì, Mahir mi ha picchiato sul volto improvvisamente, la sedia dietro di me si è rovesciata e io sono finita con la testa sul termosifone di ghisa, e infine a terra, dove mi trovo ora.
Ecco perché sto scalciando, è per cercare di rialzarmi tenendolo a distanza.
Ho in bocca un leggero sapore di sangue, credo che venga dall’interno del mio labbro superiore, e di nuovo ho quel senso di vuoto nella pancia, nei polmoni, ma molto peggio, è un vuoto che mi si allarga dentro mentre vedo le mie scarpe da tennis che cercano di fare presa sul pavimento, e di nuovo mi sembra che il cuore stia sospeso in mezzo al torace, e che batta senza battere, senza forza, senza ritmo.
Adesso ho capito cos’è questa sensazione di vuoto, è paura. È una paura terribile, che mi fa stringere le labbra in una smorfia, mi fa venire le lacrime agli occhi, mi fa ripetere che dovrei essere altrove, fuori di qui, non dovrei mai essere venuta in questo posto. Soprattutto, vorrei che adesso mi lasciassero andare via, perché voglio andare via, voglio andare via.
“Voglio andare via!”
Riesco a gridarlo il più forte che posso, mi penetra nelle orecchie il suono di queste mie parole strillate in giapponese, e finalmente sento di nuovo la forza nelle mani, nei muscoli della pancia, nelle gambe, sento lo sforzo con cui mi sto rialzando in piedi il più presto possibile, e allora mi lancio direttamente sul tavolo, spingendolo con le mani, facendo volare la bottiglia di vino, l’acqua, i bicchieri, e mandandolo in pieno su Rafiq.
Sento la mano di Mahir che mi agguanta da dietro il colletto, ma non smetto di proiettarmi con tutto il corpo in avanti, lascio andare indietro le braccia e subito la giacca di jeans mi si sfila di dosso, restandogli in mano. Non sono riusciti a fermarmi, ecco la porta, ecco la porta davanti a me, accelero ancora, afferro la maniglia e la spalanco.