«Dove vai per le strade di Roma
sui filobus o i tram in cui la gente
ritorna? In fretta, ossesso, come
ti aspettasse il lavoro paziente
da cui a quest’ora gli altri rincasano?
È il primo dopocena, quando il vento sa
di calde miserie familiari
perse nelle mille cucine, nelle
lunghe strade illuminate,
su cui più chiare spiano le stelle.
Nel quartiere borghese, c’è la pace
di cui ognuno dentro si contenta
anche vilmente, e di cui vorrebbe
piena ogni sera della sua esistenza.»
Inizia così Serata romana di Pier Paolo Pasolini la più riuscita, con i suoi cinquantacinque versi sciolti e irregolari, delle liriche della raccolta La religione del mio tempo, pubblicata nel 1961. Il poeta comincia col rappresentare se stesso, mentre va in direzione opposta a quella della gente comune che rincasa.
Una discesa agli inferi
La sua passeggiata nelle borgate romane è in verità una discesa agli inferi, nei bassifondi sociali, tra prostitute e vecchi ubriachi, dove «il fetore si mescola all’ebbrezza / della vita che non è vita», nel tentativo, che si rivela illusorio, di cogliere una natura umana intatta, astorica, genuina, identificata nel sottoproletariato e nelle sue «impure tracce umane», e nei suoi «bassi diletti innocenti».
Nella lirica emerge in modo dolente il dato autobiografico: «Ah, essere diverso – in un mondo che pure / è in colpa – significa non essere innocente… / Va, scendi, lungo le svolte oscure / del viale che porta a Trastevere: / ecco, ferma e sconvolta, come / dissepolta da un fango di altri evi / – a farsi godere da chi può strappare / un giorno ancora alla morte e al dolore – / hai ai tuoi piedi tutta Roma…».
Ma il poeta riesce pure a cogliere, poco più oltre, nel contrasto palese tra i «caldi platani» su cui «la notte teneramente fiata» e i «plumbei, piatti» attici dei «caseggiati giallastri» la spia di un degrado, l’attestazione di quella “mutazione antropologica” che egli illustrerà incisivamente e magistralmente nei suoi Scritti corsari del 1975.
Di fronte al degrado delle periferie, cagionato da uno sviluppo scambiato per progresso, la poesia certamente non può far finta di nulla. Ed allora non può che farsi impegno civile e confessione.
Il titolo della raccolta, La religione del mio tempo, suona ironico: non dovrebbero le verità, che le religioni proclamano, non bagnarsi alle sorgenti del tempo?
Pasolini spiegava così la genesi della sua raccolta in un articolo apparso su Vie Nuove: «la sirena neo-capitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue. Quando l’azione politica si attenua o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell’evasione, del sogno o una insorgenza moralistica».
Il poeta riesce a cogliere nei suoi versi, in pieno boom economico, i prodromi di quella crisi esistenziale e sociale che sarebbe esplosa di lì a poco, sul finire degli anni ’60 del Novecento. La poesia di Pasolini anticipa potentemente l’inquietudine, l’avvilimento e il senso irrimediabile di disfatta dell’uomo di fine Novecento.
(fine 5^ parte)