Da un annuncio imprevisto di Google alert – questa Eco della stampa del XXI secolo, che ha preso il posto degli artigianali ritagli cartacei della società fondata da Ignazio Frugiuele, sulla scia del gallico Argus de la Presse – ho appreso di essere entrato nel Dizionario Treccani. La notizia potrebbe vellicare quella componente di vanità senile che di solito è inversamente proporzionale all’entità dei risultati raggiunti, se il mio ingresso non fosse legato allo “sdoganamento” di un neologismo che preferirei non fosse presente nel lessico italiano: l’aggettivo “multisessuale”. Fra le altre citazioni che attestano l’ingresso nell’uso corrente di questa espressione, i redattori della Treccani hanno avuto la compiacenza di ricordare un mio articolo uscito il 13 gennaio del 2005 nella prima pagina del “Secolo d’Italia” in cui, nell’ambito di una più ampia argomentazione, informavo i lettori che “il satellitare ‘Canale Jimmy’ ha iniziato le trasmissioni della fiction ‘Metro-sexuality’, che si presenta come ‘una storia multirazziale, multiculturale e multisessuale’”. Devo confessare che non ricordavo nulla di questa citazione, riferentesi a una trasmissione all’epoca trasgressiva, ma ormai superata in audacia dal più pudico degli sceneggiati, in cui la presenza di un omosessuale (con o senza apostrofo) è divenuta d’obbligo come la presenza delle quote rosa in un consiglio d’amministrazione. Ritornando con la memoria a quell’articolo di più di tre lustri fa, mi sono ricordato invece del contesto in cui avevo inserito quella citazione. Il mio intervento, infatti, nasceva dalla delusione per aver assistito allo sceneggiato televisivo in cui Lando Buzzanca, attore per decenni considerato vicino alla destra e per questo emarginato, aveva interpretato il ruolo di un commissario di Polizia alle prese con la “diversità” del figlio. Erano anni molto diversi da quelli di oggi, in cui è l’omofobia, non l’omosessualità l’inclinazione di cui vergognarsi, e mi parve di scorgere in quella fiction l’espressione di “un’articolata strategia volta a promuovere quella che si potrebbe chiamare la ‘normalizzazione dell’anormalità’: tendente a far passare l’omosessualità non come un comportamento deviante, ma come una semplice variante della sessualità normale.”
L’articolo fece scalpore (il “Secolo” era un quotidiano cartaceo che finiva nelle “mazzette” e nelle rassegne stampa) e suscitò grave scandalo fra i “benpensanti” (o “malpensanti”, a seconda dei punti di vista). Pare che anche da parte dello stesso Buzzanca vi sia stato qualche “mugugno”, perché non si aspettava proprio da parte della destra un “fuoco amico”. Flavia Perina, che all’epoca dirigeva il quotidiano di Alleanza Nazionale con la professionalità che le ho sempre riconosciuto, ma che in materia aveva opinioni lontane dalle mie, mi suggerì di telefonargli. Lo chiamai nel pomeriggio, ma pare che riposasse (se poi si sia trattato di un pisolino diplomatico, non so e non m’interessa più di tanto). Non insistetti, anche perché non m’interessava più di tanto, e perché non avrei potuto fare a meno di confermargli, sia pur con tutto il garbo possibile e il rispetto per un bravo attore che nutrivo e tuttora nutro, quello che pensavo.
A distanza di sedici anni cito quell’episodio non certo per vanagloria, ma per constatare quanto i tempi siano cambiati. Naturalmente, nella Treccani avrei preferito entrarci con qualche altro lemma, ma non ho l’intelligenza onomatopoietica di un D’Annunzio e di tanto mi debbo accontentare; anche se, rispetto a quella mia sortita polemica di tre lustri fa, non posso fare a meno di ripetere, con la Piaf e, pare, con i parà d’Algeria: “je ne regrette rien”.
p.s. riporto a uso e consumo dei lettori il testo del mio articolo, quale lo inviai al “Secolo”. Onestamente, non cambierei una virgola. Non sono io, sono i tempi che sono cambiati. Non credo in meglio.
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Il ricordo che la maggior parte di noi conserva di Aldo Buzzanca è legato a quella che, con i suoi pregi e con i suoi difetti, rimane l’ultima stagione fortunata della cinematografia nazionale e in particolare a quella versione in chiave erotica della “commedia all’italiana” cui legarono il loro nome anche molti attori di alta levatura professionale, come, insieme a lui, un Renzo Montagnani, un Lino Banfi, un Enrico Montesano, un Mario Carotenuto. Un genere cinematografico che la sinistra non poteva soffrire, forse perché aveva il torto, in un’epoca in cui anche il privato doveva essere politico, di distrarre dalla Camera del Lavoro a favore della camera da letto, e che cinefili e critici impegnati snobbarono superciliosamente, così come aveva snobbato vent’anni prima tanti capolavori di quel Totò di cui in seguito, altrettanto superficialmente, avrebbero rivalutato anche le “pizze”.
Come tutti gli artisti che vivono dei soldi del botteghino, e non delle sovvenzioni pubbliche generosamente elargite ai vassalli e ai valvassori della sinistra, Buzzanca si distinse non solo per qualche bella pellicola, ma anche per qualche film di serie b. Film che costavano quattrocento milioni, incassavano due miliardi e a cui si assisteva più per apprezzare le forme generose di qualche attricetta callipigia che non per discutere dello “specifico filmico”. Ma è difficile sostenere che quelle pellicole – spesso non prive di una loro intima morale, visto che l’adulterio difficilmente vi era consumato e il “commenda” di turno il più delle volte finiva in bianco – corrompessero costumi che in quegli anni – gli anni del piombo e dell’eskimo in redazione, ma anche dell’“utero è mio”, col quel che ne consegue – erano ben altrimenti minati.
Il messaggio di quei film non era a pensarci bene un messaggio maschilista, perché Buzzanca, nonostante l’estrema varietà ornitologica dei titoli, dal “Merlo maschio” all’“Uccello migratore”, interpretava in realtà un maschio in crisi, per effetto della rivoluzione sessuale e sociale di quegli anni; non a caso il pubblico di molti di essi era costituito in prevalenza da donne, che si divertivano a riconoscere dietro la sua maschera le incertezze, le contraddizioni, le défaillances dei fidanzati. E, se maschilismo c’era, magari nelle pellicole più spinte, il primo a farci sopra dell’ironia era il pubblico dei cinema di periferia, che ancora non aveva perduto il gusto della battuta salace e che, anche se non conosceva il latino, apprezzava la capacità di quelle pellicole capaci di castigare ridendo mores.
Il tempo di quella commedia all’italiana è finito da un pezzo, così com’è finito il tempo dei cinema rionali con gli scomodi sedili in legno in cui con poche centinaia di lire si poteva consumare una serata e così com’è finito, soprattutto, il tempo della giovinezza nostra e di Lando Buzzanca. Al quale Buzzanca, però, bisogna riconoscere un merito non comune ad altri protagonisti di quella stagione: essere stato capace di crescere, di adeguarsi a nuovi ruoli, di rinnovarsi dimostrando di possedere quelle doti che fanno la differenza fra l’attore vero e il semplice caratterista. Ne ha dato conferma nello sceneggiato televisivo “Mio figlio”, di cui è stato il mattatore su Raiuno e per il quale ha ricevuto elogi non di circostanza anche su queste colonne. Nell’interpretare il ruolo di un commissario della Polizia di Stato che scopre l’omosessualità del figlio, è stato capace non tanto di indossare una maschera opposta a quella che ne aveva fatto la fortuna, ma di rinunciare a ogni forma di maschera, per rappresentare l’uomo nella sua sofferta complessità, nel manzoniano guazzabuglio del suo cuore e delle sue viscere. Anche se, a pensarci bene, si è allontanato meno di quanto è stato sostenuto dal suo ruolo tradizionale: come il protagonista di tante sue pellicole degli anni Sessanta e Settanta, anche il commissario Vivaldi è un maschio in crisi, anche se per motivi diversi e più gravi rispetto a quelli che affliggevano Demetrio Cultrera in “La schiava”.
Ciò premesso, e pur riconoscendo che un tema scabroso come l’omosessualità vi è stato trattato con apprezzabile misura, c’è qualcosa nell’ultima fiction della Tv di Stato che suscita qualche dubbio. Uno di essi riguarda non tanto lo sceneggiato, ma il contesto all’interno del quale si inserisce. È noto, infatti, che è da tempo in atto un’articolata strategia volta a promuovere quella che si potrebbe chiamare la “normalizzazione dell’anormalità”: tendente a far passare l’omosessualità non come un comportamento deviante, ma come una semplice variante della sessualità normale. Senza indulgere ad una rozza concezione cospiratoria, non si può non registrare la singolare coincidenza di una serie di programmi televisivi che hanno come obiettivo – secondo la definizione di Aldo Grasso – lo “sdoganamento dell’omosessualità”. Come scriveva un mese fa l’autorevole agenzia di stampa “Corrispondenza Romana”, “fin da dicembre, in prima serata, “La 7” lancia la trasmissione “I fantastici cinque”. Essa non è altro che l’imitazione italiana del programma statunitense “Queer eye for the straight guy”: cinque noti omosessuali, guru dell’immagine, fanno a gara per trasformare un eterosessuale retrivo e imbranato in un polisessuale aperto e disinvolto. “Italia 1” manda in onda “Cronache marziane”, programma ispirato ad un format spagnolo che descrive direttamente il mondo omosessuale. Il suo conduttore Fabio Canino ha l’ambizione di sdoganare i temi omosessuali dai programmi riservati a pochi per lanciarli nella tv generalista. Il satellitare “Canale Jimmy” ha iniziato le trasmissioni della fiction “Metrosexuality”, che si presenta come “una storia multirazziale, multiculturale e multisessuale”. Lo stesso canale, dal 14 ottobre, sta trasmettendo in seconda serata “The L.-World”; si tratta di una vicenda erotica in cui l’attrice Jennifer Beals interpreta il ruolo di Bette Porter, donna in carriera ambiziosa, bella e lesbica. Sul canale satellitare “Fox Life” va già in onda “La sottile linea rosa”, programma in cui alcune ragazze, desiderose di trovare marito, vengono aiutate da un gruppo di esperti omosessuali guidato dal noto stilista Stefano Gabbana.” Per quanto riguarda il cinema, inoltre, a parte Almodovar con la sua “Mala educaciòn”, “in Italia – ricorda ancora “Corrispondenza Romana” – sta per essere proiettato Benedetto, Rado e Stella Palcic: una pellicola di Gianni Cavina ed Alessandro Benvenuti, che racconta di una coppia di conviventi omosessuali che desidera adottare un figlio e che, pur di ottenerlo, non esita ad aggirare la legge mettendosi nei guai”.
Rispetto a questi e ad altri programmi e spettacoli, “Mio figlio” si distingue per una ben diversa correttezza d’approccio. Resta il fatto che, come ha correttamente osservato l’esperto di problemi della comunicazione Klaus Davi, la miniserie “rappresenta in maniera ‘normale’ le persone omosessuali”, con una scelta che, se da un lato può avere l’effetto positivo di rendere meno sofferta la condizione di chi vive in maniera traumatica la propria condizione di “diverso”, dall’altra rischia di incoraggiare a scegliere comportamenti devianti chi, in delicati momenti di formazione della personalità, come la pubertà, può essere combattuto fra diverse pulsioni e tentazioni.
È giusto ricordare – e anche questo è un motivo di perplessità sull’intera operazione – che “Mio figlio” non è andato in onda dopo le undici di sera, ma in prima serata. I film di Gloria Guida li vedeva chi li voleva vedere, e nemmeno tutti, perché erano spesso vietati ai minori. Il messaggio di “Mio figlio” è erga omnes. Come le varie Dallas e Dinasty fecero più danni alla morale delle riviste pornografiche, perché, trasmesse all’ora in cui la famiglia si riuniva a cena, banalizzarono fenomeni come l’adulterio, il divorzio, e anche la ricerca spasmodica del profitto, così “Mio figlio” rischia, per il fatto stesso di rappresentarlo, di legittimare agli occhi del grande pubblico e soprattutto di minori privi di adeguati filtri critici un comportamento che, pur non essendo sanzionato dalla legge, non può essere equiparato alla normalità.
La bravura di Buzzanca – che ha incominciato la sua carriera, non dimentichiamolo, recitando Pirandello – non basta a cancellare queste perplessità. La fiction, per definizione, è un’invenzione. Ma è una finzione che spesso produce realtà.
Enrico Nistri