Era luglio del 1920, quando Mario Carli si decise, pressato dai vertici del Comando fiumano, a trasferire la redazione del settimanale da lui diretto a Milano. Stiamo parlando de “La Testa di Ferro”, piattaforma gagliarda e vulcanica che durante i cinquecento giorni di occupazione aveva accordato i legionari più sediziosi nella comune volontà di scuotere l’apatia della storia con i sentimenti che, intanto, stavano infiammando l’atmosfera onirica della Città di Vita. Una vocazione elettrica, esplosiva, quella che si avvertiva tra i fogli del giornale. Era stata subito confermata, d’altra parte, da un corroborante quanto pretenzioso programma: “Fiumanesimo = Fiume italiana – città di vita nuova – liberazione di tutti gli oppressi (popoli, classi, individui) – disciplina dello spirito contro disciplina formale – distruzione di tutte le egemonie, dogmi conservatorismi e passatismi – fucina di ogni novità – poche parole, molti fatti”. Si comprende bene, allora, il motivo per cui D’Annunzio non dovette essere troppo sconfortato al momento del trasferimento; e questo soprattutto perché, in virtù dell’evoluzione dei molteplici eventi internazionali e in prossimità dell’emanazione dell’avveniristica Carta del Carnaro, era necessario mantenere una seppur minima parvenza di stabilità tra le diverse anime che respiravano a Fiume. Come già scritto nel primo episodio dedicato all’autore, infatti, la città era scossa da una costante diatriba che inevitabilmente ostruiva lo sviluppo dell’Impresa: se da un lato la frangia virtuosa e legalitaria tentava di frenare il convulso entusiasmo di cui andava via via contagiandosi l’ambiente; dall’altro, quella scanzonata e ribelle rincorreva le velleità magmatiche di estendere e proiettare la rivoluzione dannunziana non solo entro i confini italiani ma addirittura nel resto del globo. E Carli, soldato indocile che negli uragani della guerra aveva potuto saggiare la gradazione del suo coraggio, non si era risparmiato nell’alimentare con iniziative e progetti proprio queste aspirazioni. E’ indubbio che la sua posizione suonasse fascinosa per chi cercava nella congerie delle nuove sintesi prospettive più intrepide da tallonare, immagini più audaci da interpretare. In bilico tra patriottismo e solidarismo, tra combattentismo eroico e vitalismo estetico, la “Testa di Ferro” non a caso ospitò le firme dei maggiori protagonisti dell’esperienza fiumana -da Kochnitzky e Forti a Guido e Margherita Keller, da Furst e Comisso a Toeplitz e Cerati- che, già nel primo numero dell’irriverente periodico, si erano presentati agli occhi dei simpatizzanti in termini decisamente inequivoci: “Noi siamo le teste di ferro: coloro che non cedono, che non si lasciano né lusingare né avvilire né addomesticare, che non sanno stanchezza, che non accettano compromessi, che s’infischiano dei tribunali impotenti come la Conferenza della così detta Pace, e delle associazioni a delinquere come la Lega delle Nazioni, che non intendono calar le brache mai, davanti a nessuno, che il denaro sporco di Cagoia non riescirà mai a comprare, e che daranno Fiume all’Italia e l’Italia a Fiume malgrado e contro la volontà di chicchessia […] Teniamo a eguale portata di mano la penna e il pugnale, e tra un articolo e l’altro ci divertiamo ad allineare bombe a mano nei cassetti della redazione”.
Con tutti gli oppressi
Nel fittissimo arcipelago culturale del Carnaro, l’orbita del settimanale legionario si sarebbe ben presto incrociata con quella delle altre avanguardie barricadiere. Oltre ai legami con la Yoga di Keller e Comisso, la “Testa di Ferro” sin dagli esordi funse da megafono alle pretese dinamitarde avanzate dall’Ufficio Relazioni Esteriori (chiamato così perché “esterne” era parso farmaceutico ed “estere” sapeva di Consulta), febbrile laboratorio che individuava la sua guida nel belga di venature socialisteggianti Léon Kochnitzky. Gli intenti erano stati chiariti -con evidente irruenza- in una lettera inviata a Henri Barbusse del gruppo Clarté: “Il Comandante d’Annunzio e i suoi Legionari non vogliono imporre né al loro paese né al mondo una nuova forma di nazionalismo integrale […] La città di Fiume, il suo capo, i suoi difensori, sono fermamente decisi a resistere fino al trionfo dell’ideale di fratellanza umana che li tiene stretti. Il diritto dei popoli a disporre di se stessi, proclamato così frequentemente, cacciato sempre sotto i piedi, deve essere, alla fine, consacrato”. L’URE vagheggiava un’insurrezione totale e totalizzante che i popoli colonizzati dovevano muovere contro le grandi concentrazioni capitalistiche, contro le potenze plutocratiche che avevano in Versailles e nella Società delle Nazioni il loro fulcro vitale. Era prevista la costituzione di una nuova, temeraria organizzazione che avrebbe dovuto riunire in un fascio coeso le patrie e i partiti solidali con la profezia dannunziana.
Si trattava della Lega di Fiume; e a farne parte erano state richiamate le energie sparse di tutti gli oppressi della terra – l’Irlanda, la Croazia, la Siria, l’India, l’Albania rappresentano in tal senso solo un esempio. Coerenti con questo disegno, né Carli né tantomeno Kochnitzky lesinarono taluni apprezzamenti nei confronti del bolscevismo russo, esaltato per il furore e la violenza che, insisteva Carli, per nessuna ragione lo assimilavano al socialismo-pussismo di ascendenza occidentale: “Una cosa sola io non riesco a capire. Perché questo rinnovamento profondo non si possa fare sul terreno nazionale e patriottico. In Russia si difende la rivoluzione, ma si difende anche l’integrità territoriale, che vuol dire integrità spirituale […] Solo in Italia il socialismo bolscevizzante è ermeticamente, ferocemente antipatriottico”. A quale rinnovamento si riferiva dunque Carli? Probabilmente alla successiva rivoluzione, quella italiana, fascista, cui pure avrebbe partecipato (inizialmente tra le fila diciannoviste) rendendosi protagonista di una inaspettata sterzata monarchica, con la fondazione de “Il Principe” e “L’Impero”. Può essere tuttavia rilevante notare come l’afflato sociale sembrasse a Carli inscindibile da quello comunitario; e altrettanto utile risulterebbe diagnosticare nei propositi espressi la ricerca di un universalismo riformato, incurante del gretto nazionalismo di ascendenza borghese: sensazioni che appartenevano tanto a Carli quanto ad altri eretici del regime mussoliniano, si pensi a Marinetti (emblematico è il manifesto Al di là del comunismo, pubblicato appunto sulla “Testa di Ferro”), Ezra Pound o Berto Ricci. Le traiettorie segnate da questi maestri di carattere approfondiscono invero tematiche pulsanti della quotidianità; offrono stimoli e modalità per comprendere problematiche intellettuali e sociologiche con cui la destra odierna deve inderogabilmente confrontarsi, se non vuole rimanere imbalsamata entro i sarcofagi eterni delle sfibrate categorie predominanti.
Gli orizzonti della modernità
Sarebbe infatti inappropriato crogiolarsi nelle avventure ideologiche del secolo scorso senza provare a qualificare un’ermeneutica accettabile, utile ad affrontare gli sconquassi della modernità. Al di là degli esiti della causa fiumana e dell’URE (Kochnitzky avrebbe rinunciato all’Impresa ancor prima del Natale di Sangue), è possibile rispolverare nei propositi citati formule differenti che traccino rotte originali, innovative. Nell’era della liquidità e della visibilità social, in una realtà sempre maggiormente genuflessa agli assiomi inoppugnabili del conformismo dilagante, l’appello all’universalismo nulla ha a che fare con lo sradicamento cosmopolita che i maggiordomi della mondializzazione continuano supinamente ad invocare – nonostante gli effetti devastanti. Viceversa, significa provare a rivitalizzare un senso di appartenenza che proceda per cerchi concentrici e per progressive sussunzioni, che riesca a confrontarsi con le comunità plurali nel rispetto e nella tutela delle correlate eredità: a tal proposito, le identità locali e nazionali dei vari popoli e delle loro tradizioni andrebbero intese quali presupposti ineludibili per il recupero necessario (anche) della nostra dimensione europea: un blocco granitico, una valida sfera d’influenza che resista alle spinte livellatrici della finanza apolide e che permetta, conseguenzialmente, di tornare padroni delle ambizioni e del destino collettivi. Forse, così, sul percorso valoriale di questi itinerari, riacquisiremo consapevolezza della missione civile, spirituale cui la storia ci ha eletti nel mondo. Quali vantaggi otterremmo chiudendoci entro il guscio repellente di uno sciovinismo isterico e introverso? “L’idea di rivoluzione -avrebbe scritto Ricci-, anche nel senso strettamente politico oltre che in quello estetico e morale, è estranea al nazionalismo, il cui ideale è e sarà sempre l’ordine pubblico, ossia l’ideale de’ questurini”.
In definitiva, non si può certo biasimare a Mario Carli -che visse con la divisa degli Arditi le intemperie delle trincee- sdolcinate tendenze globaliste o strambi snobismi intellettuali. Al contrario, le intuizioni della “Testa di Ferro”, la crociata patriottica e antiusurocratica dell’URE, le avvincenti battaglie propugnate da Berto Ricci suggeriscono coordinate ulteriori alla nostra militanza e alla nostra azione politica. Per una destra sociale, comunitaria, universale.
Gli steccati li ha eretti la sinistra. Possono abbatterli, se vogliono!