La Storia – è risaputo – non si fa con i se e con i ma. Nel gioco affascinante delle possibilità immaginarie, un’Italia monarchica, alla luce, il 2 giugno 1946, di un diverso risultato del referendum, appare però un’ipotesi tutt’altro che impraticabile.
In fondo Casa Savoia aveva retto l’Italia per ben ottantacinque anni, passando indenne attraverso la complicata fase postunitaria, il brigantaggio, la Questione Romana, la stagione del trasformismo, la prima rivoluzione industriale, la Grande Guerra, la nascita dei partiti di massa, il Ventennio fascista e la sua fine, la guerra civile e la guerra perduta. In questo lungo dispiegarsi di avvenimenti la monarchia resse dignitosamente le sorti del Paese (almeno fino al 1943), sulla base dello Statuto Albertino, una sorta di Costituzione “flessibile”, risalente al marzo 1848, e forte del continuismo dinastico. Fu tutt’altro che un’anomalia, in un’Europa a stragrande maggioranza monarchica, confermandosi, nel mutare dei tempi, come “centro ordinatore”.
Il passaggio alla Repubblica avvenne con non poche ombre. A cominciare dall’esclusione dal voto di larghe porzioni del territorio nazionale (da Bolzano a Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Zara, soggette ai governi militari alleato o jugoslavo) e di quanti si trovavano fuori dal territorio nazionale, in quanto internati nei campi di prigionia all’estero.
Gli stessi risultati elettorali, proclamati a più di una settimana dal voto, furono segnati dall’ombra dei brogli e da significativi ritardi (i dati definitivi vennero comunicati dalla Cassazione ben tredici giorni dopo la comunicazione dei primi risultati provvisori da parte del ministro dell’Interno).
Ad urne aperte e a scrutinio avvenuto quello che uscì fuori dal referendum fu un Paese spaccato a metà, con un Mezzogiorno saldamente monarchico (in Campania la Repubblica ottenne appena il 23,7% dei voti) e con non pochi dubbi sulla correttezza del risultato.
L’Italia “divisa” (tra Settentrione e Meridione, tra aree sviluppate e cronici ritardi, ceti privilegiati e disuguaglianze sociali) non trova pace con il referendum del giugno 1946. E non solo per i numeri del referendum, oggettivamente risicati e perfino “parziali”, posto che molte sezioni mancarono all’appello, le schede bianche e nulle scomparvero e non ci fu possibilità di verifiche seguenti. Furono gli assetti istituzionali, posti a fondamento del neonato sistema costituzionale, che condizionarono le sorti nazionali, manifestando limiti congeniti ed evidenti debolezze strutturali.
Mancò, alla base della neonata Repubblica, un centro ordinatore ed equilibratore, in precedenza rappresentato dalla Monarchia, malamente surrogato dalla partitocrazia, con i suoi particolarismi, con i suoi piccoli e grandi giochi di potere, con la sua subalternità alle potenze internazionali (ad Ovest gli Stati Uniti ad Est l’Unione Sovietica), con la corruzione diffusa.
L’Italia era “finita”, ancor prima di nascere, per richiamare un provocatorio pamphlet di Giuseppe Prezzolini (L’Italia finisce, ecco quel che resta) edito, nel 1948, negli Stati Uniti. A fallire – per dirla con Prezzolini – il tentativo di formare uno Stato nazionale, con un’Italia destinata a diventare una provincia dell’Europa, mentre venivano meno le aspettative risorgimentali di quel “primato” a cui speravano “Mazzini e Cavour, De Sanctis e Garibaldi, Crispi e Oriani; per non parlare del padre del Risorgimento, Gioberti”.
L’antifascismo ed il “mito resistenziale” non riuscirono a surrogare queste aspettative, l’idea di una grande rigenerazione nazionale, confermandosi esperienze di minoranza. Con un’Italia che, oggi come settantacinque anni fa, appare segnata da una profonda crisi d’identità, “ondeggiando – come ebbe a scrivere Giano Accame (Una storia della Repubblica) – tra un modello capitalista fortemente contestato e un modello socialista che non è mai stato seriamente delineato giacché le esperienze dell’Europa orientale non costituirono nemmeno per il Pci un preciso punto di riferimento; tra una vocazione europea, che fu particolarmente profilata negli anni ’50, e lo spettro di una ricaduta verso il basso Mediterraneo e il Terzo Mondo, che è stato l’incubo degli anni ‘70”.
Certo, dal 1946, di strada, in termini economici e sociali ne è stata fatta. Ma non solo per l’Italia e certamente non grazie alla lungimiranza delle classi dirigenti repubblicane, succedutesi negli anni, le quali, al di là delle diverse appartenenze partitiche, sono parse accomunate da un’ identica debolezza di strategie, di visioni lunghe, di culture fondanti. Di una Politica alta, in definitiva, che sembra essere mancata alla Repubblica nata settantacinque anni fa e che continua a mancare oggi. Sempre la stessa, pur nel trascorrere degli anni, sempre uguale a se stessa. Nata male e cresciuta peggio, ma per la quale vale ancora la pena trovare le ragioni di un impegno autenticamente riformatore, se non rivoluzionario. In fondo “Right or wrong, my country”, senza retorica però, consapevoli delle sue congenite gracilità.
Verissimo.
L’opzione repubblicana vinse (al di là di leciti dubbi procedurali e numerici) non per forza propria, ma per l’estrema debolezza dell’avversario. Una Monarchia, ed Umberto II ne era consapevole, non si regge sul 50,01 % dei consensi, per questo aveva promesso un altro referendum. Che cosa poteva offrire la Monarchia, al di là di un passato non tutto da buttare, ma non certo esaltante? La condivisione di una sconfitta bellica rovinosa, l’accettazione dell’affondamento dello Statuto, una personalità da gentiluomo di Umberto II, alto e sempre impeccabile e sorridente in uniforme, ma un carattere irresoluto, debole, succube del padre – affetto da miopia politica acutissima, senza carisma, gelido, complessato – i sospetti sulle sue preferenze… Purtroppo dietro e con la Repubblica c’erano le forze antistato, quelle che ne hanno segnato il declino da 75 anni…