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Quando avviene un cambiamento di regine, pacifico o violento che sia, una delle prime cose che fanno i vincitori è cancellare le tracce concrete del regime sconfitto per eliminarne quanto possibile il ricordo, la memoria. Una delle testimonianze più appariscenti sono le opere pubbliche, ma non sempre lo si può fare per motivi eminentemente pratici: non conviene demolire edifici importanti ad esempio, ma di certo si possono abbattere opere simboliche a cominciare dalle statue, dai mosaici, dalle targhe commemorative. Non si poté radere al suolo il Foro Mussolini eclatante simbolo del fascismo proprio per la sua imponenza e importanza anche architettonica e ci si limitò a ribattezzarlo Foro Italico, né le innumerevoli Case del Fascio, riutilizzate per altri scopi. E’ noto che quando Alcide De Gasperi venne accompagnato appunto al Foro per fargli esaminare i mosaici inneggianti al Duce e al fascismo, l’unica cosa che lo impressionò negativamente, lui democristiano e cattolico, furo le decine di pudenda scoperte delle colossali statue virili, e l’unica decisione che prese non fu politica ma moralistica, quella di farle coprire con le famose foglie di fico… E la imponente stele di marmo di Carrara con la vistosa scritta “Mussolini Dux” sta ancora al suo posto con la provocatoria incisione ben in vista e nessuno ormai dopo 75 anni la considera un oltraggio alla memoria antifascista degli italiani, anche se ogni tanto c’è qualcuno che, per fortuna inascoltato, ne chiede la distruzione.
Però altri manufatti si possono buttar giù, o si possono modificare certe iscrizioni, certe targhe, i noni di certi posti o di certe strade con riferimenti o intitolazioni a persone, luoghi o eventi che possono ricordare il regime deposto. Una cosa di cui nessuno ormai si rammenta perché con il tempo passano le generazioni e il ricordo.
Stranamente invece lo ha fato un giornalista che senza un motivo apparente di anniversario o ricorrenza, ma solo per pura “memoria antifascista”, ha rammentato nella cronaca di Roma de Corriere della Sera (19 aprile 2021) quanto venne stabilito dal comune il 2 febbraio 1945 per certe vie e piazze della capitale. Un articolo singolare e fuori tempo, ma utile per capire la ratio di certe decisioni, un esempio che vale in ogni tempo e luogo, per il quale non ci si può meravigliare più di tanto e che piacerebbe ci si ricordasse anche quando avviene al contrario senza considerarlo qualcosa di negativo o autoritario. Sono appunto i diritti dei vincitori, e non soltanto di quelli che fanno comodo o in cui ci si riconosce. I vincitori hanno sempre ragione, sono nel giusto e riscrivono la storia prima in concreto e poi sui libri di testo.
Sicché grazie a questo articolo intitolato nientemeno che “Il giorno che Roma cancellò i nomi della vergogna”, abbiano appreso – vedi un po’ l’eterogenesi dei fini! – nomi di cui si è persa memoria col trascorrere del tempo. E così ci viene ad esempio ricordato che l’attuale Piazzale dei partigiani si chiamava addirittura Piazzale Adolf Hitler, ma il nostro solerte giornalista si guarda bene dallo spiegarne il perché: si tratta infatti della piazza d fronte alla Stazione Ostiense dove si fermò il treno del Fuhrer quando giunse a Roma nel 1938. Non avendolo spiegato quella intitolazione sembra essere stata messa solo per piaggeria politico-ideologica.
Questo oggi apparirà come un “nome della vergogna” modificato dal consiglio comunale della città in uno più adeguato ai tempi seguendo una specie di legge del contrappasso, ma che dire degli altri? Il “vergognoso” nome di Ponte del Littorio viene trasformato in Ponte Matteotti, e quello di Viale dei Legionari in Via Antonio Gramsci; tocca poi a Viale Libro e Moschetto che adesso è Viale Piero Gobetti, mentre nei pressi dell’ateneo romano Via dei Battaglioni Universitari è ribattezzata Via Cesare De Lollis, e la lunga strada che attraversa i Parioli intitolata a Bruno Buozzi si chiamava prima Via dei Martiri Fascisti. Ovviamente intitolazioni che non si potevano mantenere perché troppo connotate e sostituite con altre ideologicamente opposte.
Il nostro giornalista politicamente corretto ci informa poi minuziosamente che, “come una doverosa riparazione ai crimini commessi dal regime fascista” nella guerra civile spagnola, nel 1945 venne deciso di mutare nome ad altre strade intorno a Piazza Mazzini per non ricordare più quei vergognosi eventi, cioè vittorie militari oggi da rinnegare: Via Malaga trasformata in Via Pilo Albertelli, Via Santander in Via fratelli Rosselli, Via Bilbao in Via Gioacchino Gesmundo, Via Ebro in Via Eugenio Colorni, Largo Guadalajara in Largo don Giuseppe Morosini. Anche qui con il criterio di una specie di contrappasso politico.
Così, grazie alla solerzia di questo giornalista abbiano potuto venire a conoscenza di una serie di informazioni altrimenti cadute nell’oblio, sapere i “nomi della vergogna” che i vincitori si affrettarono a sostituire per cancellare un’altra memoria precedente alla loro e nella quale non si riconoscevano più. Una dimostrazione, come detto, che ogni vincitore ha i suoi diritti, anche quello di cambiare l’intitolazione di strade e piazze, di distruggere la rappresentazione del regime sconfitto e della sua memoria, ma non certo quello di cambiare la Storia con la esse maiuscola, che rimane, pur se si modifica la storia con la esse minuscola.