Ho aspettato quasi una settimana prima di commentare la ventilata scelta dell’Unione Europea di ammettere la vendita di vino annacquato o addirittura “de-alcolato”, anche per quanto riguarda le stesse produzioni a denominazione di origine controllata. È stato il mio modo di contare fino a dieci per contenere la rabbia dinanzi a una notizia che, se a prima vista può far sorridere, costituisce la conferma dei crescenti rischi che lo strapotere degli eurocrati comporta soprattutto per i Paesi mediterranei. Le innovazioni che probabilmente saranno introdotte dal 2023 dalla politica agricola comunitaria sono infatti la risultante di due tendenze di lunga durata dell’Unione Europea: l’imposizione di una dittatura salutistica, volta sempre più a demonizzare tradizioni alimentari e stili di vita millenari, e l’asservimento delle scelte di politica economica ai diktat del mondo islamico.
I protestanti tristi
Dietro la prospettata autorizzazione a chiamare vino quello che vino non è si avverte l’influenza di due grandi gruppi di pressione: i paesi del Nord Europa, soprattutto scandinavi, “protestanti tristi” preoccupati per una diffusione dell’alcolismo legata per altro soprattutto all’abuso di superacolici, e la lobby dei produttori interessati a commercializzare i loro prodotti nei paesi musulmani. Nel mondo arabo, infatti i precetti del Corano relativi all’alcol vengono applicati sempre più rigorosamente, nell’ambito di un processo di reislamizzazione che dalle moschee si è trasferito alle mense: nella Turchia di Erdogan è in atto una politica semiproibizionistica e vino, birra e liquori sono divenuti un bene di lusso, tanto che molti giovani ricorrono alla distillazione clandestina.
Per favorire gli interessi di pochi grandi esportatori si rischia così di legittimare quella che fino a oggi era una frode, di dequalificare un prodotto che rappresentava una delle eccellenze italiane, di mettere fuori commercio i robusti mosti del nostro Mezzogiorno, ma soprattutto di infliggere un’ulteriore ferita al nostro stile di vita. Perché, è vero, se i diktat di Bruxelles passassero, nessuno metterà al bando (almeno per ora) le vecchie tecniche di vinificazione, ma lo snaturamento di un prodotto che fa parte delle tradizioni culturali e persino religiose del nostro mondo costituisce un precedente pericoloso. Già oggi i limiti ridicolmente bassi previsti dall’etilometro hanno distrutto il piacere di recarsi in trattorie fuori porta, a meno di non disporre di un astemio disposto a guidare al ritorno, e hanno fatto sì che il quartino di vino sia stato espunto persino dagli appalti delle mense dei militari, mentre una volta alle sentinelle veniva distribuito, come genere di conforto, un ottimo cordiale in bustine. Ma il futuro si prospetta ancora più sconfortante, vista la proposta di apporre, come oggi avviene per le confezioni di sigarette, teschi e ammonimenti terroristici sulle bottiglie di alcolici.
A pensarci bene, però, non c’è da stupirsi: un’Europa sempre più de-europizzata, che vent’anni fa ha rinnegato le sue radici cristiane, è naturale che tenti d’imporci il vino de-alcolato. E con esso magari anche una vita sempre più devitalizzata.
L’etilometro ha ucciso il consumo del vino (e pure della birra ed altre bevande alcoliche) non l’Islam…