C’è un motto, tanto caro agli appassionati anglosassoni dello sport del motore, col quale ogni tanto si torna a fare i conti, che è “motorsport is dangerous“: in tal senso, è stata ancora una volta la pista di Imola (che nella memoria collettiva rimanda al 1987, al 1989, al 1994) a ricordarcelo, come già avvenuto al Mugello lo scorso anno o come periodicamente fanno altri circuiti quali Spa Francorchamps o Montecarlo.
Il circuito romagnolo, prima del tragico fine settimana del 1994 che costò la vita a Ratzenberger e a Senna, era molto diverso da quello attuale, non avendo né una Variante del Tamburello, né una Variante Villeneuve, che erano semplicemente due curve molto veloci: la prima, in particolare, fino al ’94 era una velocissima e continua piega sinistrorsa che si percorreva ad oltre 280 km/h (ci sono alcune soggettive, sempre del 1994, che mostrano addirittura il contachilometri segnare ben oltre la soglia dei 300 km/h), dalla quale si usciva, percorrendo poi l’allungo che dopo aver affrontato la “Villeneuve”, portava alla staccata della Tosa.
Con le modifiche, come detto, questa sezione del tracciato è stata rallentata, sebbene poi una nuova ristrutturazione del 2007 abbia successivamente eliminato anche la Variante Bassa, che era la storica chicane che i piloti affrontavano prima di immettersi sul rettilineo del traguardo, e al cui posto adesso figura un allungo che i piloti approcciano in accelerazione, in uscita dalla precedente curva della Rivazza, scaricando progressivamente tutta la potenza e arrivando in pieno; insomma, anche da questo si capisce come con le attuali vetture le velocità di punta raggiunte, anche in condizione di pista umida, siano tutt’altro che relative e la controprova è arrivata con la dinamica del grande colpo di scena che ha costretto i commissari ad interrompere le ostilità, mutando in parte il corso dell’evento.
La dinamica: una questione di centimetri in pochissimi decimi
È il giro 32 e il Gran Premio sta vivendo il suo momento apicale, con le soste effettuate per passare dalle gomme intermedie a quelle d’asciutto, mentre i piloti stanno cercando con difficoltà, come dimostrato dall’errore di Hamilton alla Tosa nel giro precedente, di prendere le misure alla pista, quando le telecamere inquadrano due vetture divelte e la sede stradale coperta di rottami.
Cosa è successo?
È successo che George Russell, sfruttando l’accelerazione in uscita dalla seconda della Rivazza e usufruendo dell’apertura del DRS, prende la scia di Vallteri Bottas, partendo da lontanissimo e arrivando ad una velocità nettamente maggiore, potendo così spostarsi sulla destra per prendersi la posizione e perfezionare la manovra alla staccata del Tamburello, conquistando così la nona posizione ma soprattutto compiendo un sorpasso ai danni di una vettura ben più blasonata, la Mercedes del finlandese, autore fin lì di una gara piuttosto sotto tono.
I sorpassi all’esterno, nel tratto in questione, sono merce rara e i più attenti in quel frangente avranno sicuramente rimembrato, mutatis mutandis, correva l’anno 2001, la grande dimostrazione di forza da parte di Juan Pablo Montoya, allora alfiere della Williams, nei confronti della Jordan di Trulli sempre all’esterno, sfruttando poi il cambio di direzione in quella stessa curva.
Russell comunque nella fase di attacco, grazie alla combinazione di scia e DRS, arriva a toccare i 334 km/h contro i 308 km/h del diretto concorrente: a 330 orari, una vettura percorre pressappoco 92 metri al secondo, per cui, sulla base dei 26 km/h di differenza, i 5,5 metri di lunghezza equivalenti allo spazio da percorrere per completare la manovra di sorpasso nei confronti dell’altra automobile, si attraversano in non più di 7-8 decimi di secondo, un battito di ciglia in cui Bottas non fa nulla di eclatante per difendersi, se non mantenere la linea interna nell’impostazione della traiettoria, per affrontare la variante successiva, senza alcuna mossa repentina; forse, in maniera infinitesimale, il finlandese allarga impercettibilmente, nel momento in cui il contendente sta sfruttando al massimo la carreggiata: è in quel punto che, come per il “più classico battito d’ali di farfalla” che stravolge gli avvenimenti, proprio quando i due sono affiancati, Russell pizzica leggermente con l’anteriore destra l’erba a bordo pista, perde la vettura che si intraversa, scarta e colpisce la Mercedes (il picco di velocità raggiunto dall’inglese arriva ai 341 km/h nel momento della rotazione da testacoda; per di più, almeno consultando i grafici estrapolati dai dati pubblicati, si nota come Russell mantenga la farfalla dell’acceleratore aperta al 100% praticamente fino all’istante in cui perde la vettura).
Avvenuto il contatto, entrambe le vetture si schiantano sul muro di sinistra e dopo esservi rimbalzate, concludono per inerzia la loro corsa sul lato opposto, cospargendo contestualmente la pista di detriti che “sparati”, colpiscono anche i concorrenti che seguono.
Tra l’altro, l’adrenalina è ancora così forte che non appena sceso dalla macchina, la prima cosa che l’alfiere della Williams fa non è sincerarsi delle condizioni dell’altro pilota, quanto andargli a dare uno scappellotto sul casco, beccandosi come risposta un bel dito medio in mondovisione, e creando così un siparietto “umano”, merce ormai troppo rara nella Formula 1 tecnologica e ipermediatizzata della contemporaneità.
Sempre per restare in tema di media, come nel più classico stile richiesto dalle attuali consuetudini, George Russell avrebbe poi affidato alle reti sociali le sue “scuse” e i suoi chiarimenti nei confronti di quello che l’anno scorso era pure stato il suo compagno di squadra nel Gran Premio di Sakhir.
E allora, perché insistere su questo episodio?
Il rischio, quando si decide di sottolineare un fatto che in questo sport dovrebbe essere all’ordine del giorno, o quasi, è quello di muovere un inutile appunto, di creare un orpello, volendo per forza dare un’aurea di miticità a qualcosa che in verità si erge poco sopra la soglia dell’ordinario, soprattutto se si parla di corse sul filo dei 300 allora.
E invece, come monito, sono questi gli episodi che oltre a far saltare noi appassionati sulla sedia, ci riportano ogni volta a fare i conti con noi stessi, con il nostro sport e a misurare gli effettivi progressi raggiunti anche in termini di sicurezza, con tutti gli eccessi e le opinabilità del caso, nella misura in cui si può assistere ad una competizione sempre più serrata, con un livello sempre più elevato di prestazioni e del confronto di vertice, proprio perché il sistema entro cui l’azione di gara si sviluppa è in grado di offrire maggiori benefici e garanzie; e questo, al netto appunto delle estremizzazioni e del finto spettacolo che troppo spesso si cerca e che molto spesso ci viene dato in pasto, resta l’insegnamento più grande da stampare, fissare e tenere ogni volta bene in mente.