«M’accompagna lo zirlio dei grilli
e il suono del campano al collo
d’una inquieta capretta.
Il vento mi fascia di sottilissimi nastri d’argento
e là, nell’ombra delle nubi sperduto
giace in frantumi un paesetto lucano.»
Questa poesia intitolata Lucania fu scritta da Rocco Scotellaro (1923 – 1953), allora giovane studente liceale di appena 17 anni, che tornava a Tricarico dopo la conclusione dell’anno scolastico. Dopo una lunga e faticosa camminata, partendo dalla stazione di Grassano, l’apparire del paese nativo «nell’ombra delle nuvole» è salutato dal poeta con un senso di sollievo. Ma, a ben vedere, in quel paesetto che «giace in frantumi» c’è anche un preludio alla ricerca di una cultura che, sulle tracce di Gramsci, possiamo definire nazionalpopolare, a quell’incontro tra cultura contadina e intellettualità che avrebbe segnato la breve vita di Scotellaro, che, ricordiamo, partecipò attivamente alle lotte contadine del dopoguerra e fu sindaco socialista di Tricarico dal 1946 al 1950. La poesia fa parte della raccolta È fatto giorno, pubblicata postuma nel 1954 grazie all’interessamento di Carlo Levi che, avendo conosciuto il poeta lucano durante gli anni del confino, ne curò la pubblicazione.
Tra poesia e politica
Se le poesie giovanili come Lucania risentono dell’influenza dei Crepuscolari, nelle successive liriche Scotellaro tende «ad un tono epico-popolaresco» (Arnaldo Bocelli, in Enciclopedia Italiana Treccani), con risultati non sempre felici, ma «di indubbia genuinità lirica» quando il politico non prende il sopravvento sul poeta e quando il poeta non cede alla retorica della lotta e dell’ingiustizia sociale.
Come in queste due brevi liriche, dove, nella prima, tratta da È fatto giorno, è evidente il richiamo alla civiltà contadina; e nell’altra, tratta dalla successiva raccolta Margherite e rosolacci del 1978, appare un senso di sconfitta di fronte al procedere inesorabile della Storia:
«È rimasto l’odore
della tua carne nel mio letto.
E’ calda così la malva
che ci teniamo ad essiccare
per i dolori dell’inverno.»
(È calda così la malva)
«Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore
gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla
giura che Cristo poteva morire a vent’anni
le gru sono passate, le rondini ritorneranno.
Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno
le mattine degli uccelli a primavera
le maledizioni e le preghiere.»
(Ho capito fin troppo)
Un cantore della civiltà contadina
Rocco Scotellaro ha senza dubbio un suo posto nella storia della letteratura italiana del Novecento. I suoi versi più convincenti e autenticamente lirici sono alimentati dal «senso profondo di una realtà antica», da «una riflessione ripiegata e drammatica sulla propria e sull’altrui condizione umana, fatta di dissonanze, di privazione e di perdita» (Giuseppe Amoroso). Il poeta lucano, in definitiva, ci appare come un cantore autentico della cultura contadina, di un mondo sconfitto, ma orgoglioso dei suoi riti e delle sue credenze:
«È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi
con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.
Le lepri si sono ritirate e i galli cantano,
ritorna la faccia di mia madre al focolare.»
(E’ fatto giorno)