“L’uovo del potere e la gallina della rivoluzione”: così Leonardo Sciascia sintetizzava per bocca del ministro di “Il contesto” l’Italia degli anni ’70, preconizzando il compromesso storico, che di lì a qualche anno sarebbe diventata la gallina. In “Todo modo” (1974) immaginava ministri, sottosegretari, presidenti e vescovi fare quadrato nello spiazzale buio dell’eremo di don Gaetano per il rosario “quasi che fossero e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia”. A quattro anni di distanza quella bolgia di potenti si ritrova nella stessa confusa bolgia, che è il sequestro e la morte di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, rapito dalle Brigate Rosse il 16 marzo del 1978 in via Fani e fatto trovare cadavere cinquantacinque giorni dopo. Aldo Moro fu ucciso (o giustiziato come sostennero i brigatisti al termine del processo del popolo) ma quella pagina italiana stenta a farsi storia e resta ancora consegnata alla cronaca e alla letteratura.
Un cadavere eccellente che diventa per Leonardo Sciascia il paradigma della finzione della scrittura e dello Stato, forse pure una specie di ossessione se un mese prima del ritrovamento del memoriale di Moro nel covo di monte Nevoso a Milano, pubblica “L’Affaire Moro”, il suo libro più bistrattato e malinteso. Una tragedia della comunicazione, un simposio della dissimulazione, l’ingloriosa agonia del laicismo: questo è per Sciascia il caso Moro. La letterarietà del caso Moro sta in due sequenze: Gianmaria Volontè che si copre con la coperta rossa pronto a ricevere il colpo di pistola e Roberto Herlitzka che cammina, residuo onirico, nella alba di Roma. La foto del cadavere di Aldo Moro, raggomitolato nel bagagliaio della Renault 4 Rossa e avvolto nell’immancabile cappotto (più composto del don Gaetano sciasciano), è soprattutto un inghippo della memoria.
Almeno così crede Antonio Iovane, giornalista e scrittore, nel suo ultimo libro “La seduta spiritica” (Minimum fax). Il libro ricostruisce passo per passo la seduta spiritica cui parteciparono il 2 aprile del ’78 alcuni professori – tra cui Romano Prodi (Iovane pedina il professore tanto da farne pura letteratura), Mario Baldassarri, Carlo e Alberto Clò- riuniti per grigliata in campagna a Zappolino, vicino Bologna. Durante la seduta vennero evocati gli spiriti di Luigi Sturzo e di Giorgio La Pira che rivelarono, tramite il movimento erratico di un piattino, il luogo in cui si trovava Moro. Solo che Gradoli fu confuso non con la via in cui vi era un covo attivo delle BR ma con il paesino omonimo. Antonio Iovane fa di quella storia illogica, antilluminista avrebbe detto Sciascia, un esercizio di memoria e di scrittura sulla scia dello scrittore di Racalmuto. Il libro, se uno spirito può realisticamente evocare, è proprio quello di Sciascia con la sua lucida razionalità e con quella sua irrinunciabile negazione “dello Stato così com’è”. Iovane mette in scena – è proprio il caso di dire- un pezzo di storia italiana in cui nemmeno per un attimo c’è la tentazione della risata o della beffa. Un potere grottesco e malmostoso ingoia la tragedia di un uomo e restano sospese alla fine del libro (scritto con una prosa ironicamente schietta) alcune domande: come è potuto accadere che si considerasse verità l’evocazione di uno spirito, come si sia verificato un tale tradimento della memoria collettiva, come sia stato possibile non rimproverare ancora ai superstiti di quegli anni una tale antinomia della ragione. Il merito del libro di Iovane non è solo aver raccontato una storia mai raccontata davvero, ma di aver ricostruito la ragnatela (ancora una citazione della ragnatela di “Todo modo”) di complicità, negligenze, interessi, omertà come un guasto del rapporto tra verità e finzione, tra verità e scrittura: le lettere stesse indicate dal piattino prima sono sconnesse poi un’impostura.
Cominciamo con una frase di Ionesco: “Tutto è assurdo, e tutti sono assurdi, quando manca Dio“. Il suo romanzo inizia con un incipit fulminante tanto quanto un avvertimento: “Questa è una storia assurda“. Ne è proprio sicuro?
“Sulla falsa riga di Ionesco rispondo che i professori scelgono proprio di accantonare Dio, che avrebbe impedito loro di misurarsi con lo spiritismo inviso alla Chiesa, e lasciano in questo modo che prenda vita la versione assurda di come ottennero quell’informazione. <<Tutto nel mondo è burla, l’uomo è nato burlone˃˃, è scritto nel finale del Falstaff di Verdi. E la burla dei professori, che vogliono farci credere di avere ricevuto il suggerimento del covo delle BR dagli spiriti, è assurda nel momento in cui non ha alcuna aderenza alla razionalità. Sì, questa è una storia assurda e inventata, eppure è ancora in piedi dopo più di quarant’anni. Ma questo non le dà legittimità, anzi”.
Dopo il romanzo “Il brigatista”, questo libro sul caso Moro è ancora un processo di ibridazione della scrittura d’inchiesta con quella letteraria. Perché raccontare la seduta spiritica a Zappolino? Quanto sono letterari quei personaggi riuniti intorno a un piattino?
“Lo sono profondamente. Pensi solo alla prima scena del mio romanzo: da una parte l’intellettuale libero e razionale, Leonardo Sciascia, dall’altra il professore di area democristiana, Romano Prodi, che oppone alle obiezioni illuministiche dello scrittore l’idea che siano stati gli spiriti a offrirgli la chiave per liberare Moro. Due mondi impenetrabili, due caratteri complessi, sfaccettati, ma in questa situazione due maschere inconciliabili. Basta questa scena, a mio avviso, per giustificare la scrittura di una storia del genere, oltre al fatto che è una storia mai raccontata e ci aiuta a capire un po’ di più il Paese che siamo”.
Leonardo Sciascia dilaga nel suo libro, più che da intellettuale testimone di quei cinquantacinque giorni tremendi, e poi membro della Commissione parlamentare d’inchiesta, come una sorta di fantasma della scrittura di Iovane. Azzardo: Sciascia è per lei, quello che Moro fu per Sciascia? A Moro, lo scrittore di Racalmuto dedicò tre opere fondamentali del suo pensiero.
“Sciascia detestava il Moro politico e tutto quello che egli rappresentava; ma quando viene rapito e il suo mondo lo abbandona – con i suoi colleghi di partito e cogli amici che da una parte desistono dal tentativo di salvarlo e dall’altra sostengono che quelle lettere non siano ascrivibili a lui ma siano scritte sotto dettatura delle BR – decide di riscattare l’uomo, la creatura. E così scrive L’Affaire, e così accetta di tornare a fare politica e sedere sugli scranni della Commissione Moro. Da questo punto di vista Sciascia non va certo riscattato, lo fanno le sue opere formidabili. A me, tuttavia, interessava anche una riflessione sulla solitudine dell’uomo Sciascia e in questo sì, forse anch’io ho sentito la necessità di rendere onore all’uomo, l’uomo libero Sciascia”.
“La seduta spiritica” lascia un’ipoteca: impossibile raccontare l’Italia dal ’68 agli anni ’90 senza Sciascia e Pasolini. E’ d’accordo?
“Senza di loro il racconto è monco, Sciascia e Pasolini hanno interpretato il Paese in profondità, spesso in maniera controversa, hanno attizzato un dibattito che spesso rischiava di ridursi in cenere, hanno messo in rilievo la cattiva coscienza del Potere, ovunque esso si annidi, e hanno sempre agito da uomini liberi. Oggi occorre essere spudorati per utilizzare la parola intellettuale, ma fino a trent’anni fa le parole degli intellettuali offrivano chiavi di interpretazione della realtà imprescindibili. Pasolini e Sciascia non hanno prodotto fatti, ma chiavi. Senza di loro avremmo capito di meno”.
Alla fine del libro, lei avanza la sua tesi su come si svolsero i fatti. Ma al di là di questo, secondo lei Aldo Moro chi era? Una maschera nuda per dirla alla Pirandello o un mistificatore del linguaggio fin dentro quel covo?
“Entrambe le figure. Nel covo si liberò delle mistificazioni del linguaggio fino a diventare l’accusatore di ciò che lui stesso aveva rappresentato fino a quel momento, e quindi l’accusatore di se stesso. Le lettere che scrive da via Montalcini sono tanto chiare e cristalline quanto la sua lingua, in precedenza, era stata avvolta dal fumo dell’inaccessibilità. Vanno diritte al bersaglio, ed è anche per questo che il Potere rappresentato dalla Dc le rifiuta e delegittima il suo autore”.
Uno dei passaggi più interessanti del libro, che fa venire più di un sospetto sul vero scopo del romanzo, è il tradimento della memoria collettiva, la beffa dei fatti a posteriori: il rastrellamento di Gradoli mai avvenuto. Nella ricostruzione di questa vicenda la memoria è il cadavere eccellente?
“L’episodio di Gradoli è una cartina di tornasole: ci mostra le nostre inclinazioni che oscillano tra la rimozione e la “memoria aumentata”, perché le immagini che si depositano nella nostra mente non sono i nostri ricordi, ma la nostra coscienza, e in questo caso la nostra coscienza collettiva. François de La Rochefoucauld sosteneva che crediamo a ciò che desideriamo. Ecco, tutti noi dovremmo misurarci coi nostri desideri e con quanto essi non ci consentano di vedere la realtà”.
*Antonio Iovane è nato e vive a Roma. Giornalista, lavora per Gedi Digital. Per Barbera editore ha scritto La gang dei senzamore (2005) e Ti credevo più romantico (2006), mentre nel 2019 ha pubblicato una favola illustrata da Ellekappa per Albe edizioni: Il segreto del Mago Bubù. Con Minimumfax ha pubblicato Il brigatista (2019)
La massima spudoratezza fu di Romano Prodi.