“L’occasione è unica: bisogna spendere e spendere bene” – ha detto Mario Draghi in occasione del recente incontro sul Recovery plan con gli enti locali. Non è la prima volta che il Presidente del Consiglio fissa nella capacità di spesa l’obiettivo primario del suo governo. E’ un tema che ha ribadito più volte nelle ultime settimane, forte – dopo anni di vacche magre e di rigore – dei fondi europei messi a disposizione per la ripresa. Unico dettaglio, non di poco conto, è che – come indicato dalla Commissione europea – gli investimenti provenienti dal Fondo siano impiegati sulla sostenibilità ambientale (in linea con l’European Green Deal), la produttività, la transizione digitale, l’equità e la stabilità macroeconomiche.
Per un Paese “normale” il Fondo dovrebbe incentivare la ripresa, spingendo la crescita economica verso l’innovazione e l’economia verde. In realtà con l’Italia i conti vanno fatti guardando alle debolezze strutturali del nostro Sistema-Paese e ai ritardi decennali che il Covid19 ha reso ben evidenti a tutti.
Da qui bisogna partire per definire i confini della nostra crisi nazionale, la quale è la somma delle nostre incapacità politico-gestionali, dell’inadeguatezza della nostra classe dirigente, della gracilità del nostro sistema amministrativo (aggravatosi recentemente, sul fronte sanitario, per il conflitto di competenze tra Stato centrale e Regioni), dei ritardi nella Scuola e nella Ricerca, delle disuguaglianze tra Nord e Sud del Paese (con un reddito che negli Anni Settanta era, nel Mezzogiorno, il 65 per cento del Centro Nord ed oggi è al 55 per cento), soprattutto dello sfarinarsi della tenuta sociale.
In un anno (febbraio 2021 sullo stesso mese del 2020) – ci dice l’Istat – la diminuzione degli occupati risulta pari a 945 mila unità. Parallelamente sono cresciuti i disoccupati (+21 mila) e, soprattutto, gli inattivi, di oltre 700mila unità. Rispetto a febbraio 2020, il tasso di occupazione è più basso di 2,2 punti percentuali e quello di disoccupazione è più alto di 0,5 punti.
Nel 2020 la povertà in Italia ha stabilito il record rispetto ai dati raccolti dall’Istat dal 2005, raggiungendo i 2 milioni le famiglie in povertà assoluta (il 7,7% del totale contro il 6,4% del 2019,) con un aumento di 335 mila famiglie. Complessivamente le persone in povertà assoluta in Italia sono 5,6 milioni (il 9,4% contro 7,7% del 2019), ossia oltre un milione in più rispetto all’anno precedente.
A margine di questa crescita della povertà c’è l’emergere di una precarizzazione di massa, rappresentata dall’esercito degli abusivi e dei lavoratori in nero (oggi pari a circa 3,3 milioni di soggetti) impiegato soprattutto nei campi, nei cantieri edili, nelle fabbriche o nelle case degli italiani per prestare la propria attività lavorativa. Un esercito affiancato dal cosiddetto “caporalato digitale”, impiegato, per i servizi di consegna o trasporto, dalle grandi aziende multinazionali che utilizzano frequentemente manodopera proveniente da società di servizi terze, creando una situazione in cui il pagamento a cottimo, i contratti a breve termine, gli orari flessibili e la mancanza di ammortizzatori sociali sono solo alcuni dei segni distintivi delle nuove forme di lavoro interinale legate al mondo digitale.
Nel contempo torna a crescere l’abbandono, cioè il numero dei ragazzi under 25 che non vanno oltre la terza media. L’abbandono scolastico precoce è causa e conseguenza del blocco dell’ascensore sociale. L’Italia finisce così in coda alla classifica europea e ben lontana dall’obiettivo del 10%, previsto per il 2020.
Il lockdown ha dato una spinta ulteriore a lasciare la scuola. Lo ricorda il periodico “Tuttoscuola”, citando un’indagine condotta da Ipsos tra gli studenti della secondaria di secondo grado: nel 28% delle classi si sarebbe verificato almeno un abbandono di un loro compagno, da quando la pandemia ha compromesso le attività didattiche in presenza. Poiché nel 2019-20 le classi funzionanti erano 121,5mila, si può ritenere che non meno di 34mila ragazzi hanno abbandonato o siano propensi a non ritornare a scuola: una ferita – commenta la rivista – che negli ultimi dieci anni ha comportato un abbandono complessivo di quasi 1,6 milione di ragazzi, il 26% degli oltre 6 milioni che nel decennio precedente avevano iniziato il loro primo anno del percorso scolastico nelle superiori. “È come se tutte le scuole statali della Lombardia e della Toscana si svuotassero senza avere in classe nemmeno uno del milione e 658 alunni iscritti quest’anno, lasciando deserte le aule di paesi e città”.
Da non sottovalutare – in termini più generali – la tenuta stessa delle famiglie, con in testa la questione abitativa. Calcolando le variazioni della spesa media mensile per l’abitazione e di quella media mensile totale delle famiglie italiane, in rapporto al 1997, si può osservare che, negli ultimi anni, la spesa per abitazione e utenze è stata mediamente del 50% in più rispetto a 20 anni fa, per non parlare delle aree di degrado, concentrate nelle periferie delle città, nei quartieri in abbandono, dove l’emergenza abitativa si interseca con quella sociale, con la crisi occupazionale, con gli abbandoni scolastici.
Disoccupazione, povertà, precarietà, abbandoni scolastici, crisi abitativa: coniughiamo queste “emergenze” con le debolezze gestionali del nostro Sistema Paese e apparirà bene evidente come la risposta non possa essere parziale. Allo slogan “non c’è rispetto per chi lavora”, che punteggia le tante piazze della protesta non basta opporre un generico richiamo alla “buona spesa” del Recovery plan, laddove i temi sul tappeto evidenziano un quadro generale che non può essere affrontato con strumenti usuali o peggio ancora appellandosi alle mitiche leggi di mercato, ormai alla corda.
E’ ad uno Stato autorevole ed inclusivo che bisogna fare appello, uno Stato, espressione di una Politica “alta”, che non sia solo momento di mediazione, quanto soprattutto luogo ideale per fissare priorità, per dare obiettivi, per costruire momenti concreti di dialogo e di concertazione, per “rivoluzionare” assetti obsoleti, inadeguati a rispondere al mutare della realtà sociale.
E’ insomma mettendo finalmente all’ordine del giorno del Paese non solo una generica aspettativa “modernizzatrice” che si può sperare di invertire l’attuale congiuntura. C’è un’ Italia profonda che vuole essere ascoltata e che chiede risposte all’altezza dell’emergenza in atto. In rischio – d’altro canto – è che la precarizzazione sociale diventi cronica, con gravissime conseguenze sul piano della tenuta complessiva del Sistema Paese. Con buona pace per il Recovery plan e per la “buona spesa” auspicata da Draghi.