Contiamo ancora i mesi della pandemia e delle conseguenti, variegate limitazioni delle nostre libertà, cercando di tenere accesa la fiammella della speranza che un giorno non lontano si possa tornare alla normalità o, quanto meno, che l’incubo possa finire. L’estate? La scienza? Il buon Dio, forse, saranno i principali fattori di questo auspicato “ritorno” che, come la storia insegna, non ci porterà mai allo stesso punto di partenza; e questa “luce in fondo al tunnel”, più volte evocata, un po’ ci sgomenta, perché non sappiamo cosa troveremo.
Molte abitudini sono cambiate nella nostra vita quotidiana, e non è il caso qui di stare a elencarle: le conosciamo troppo bene. Andiamo a consultare varie fonti, per trovare un appiglio storico alle nostre speranze e, a questo punto, dobbiamo rinunciare a paragonare quella odierna all’epidemia d’influenza “asiatica”. Per la portata planetaria e la capacità mortifera, il precedente più vicino è rappresentato dalla “spagnola” (che, non dimentichiamo, nel mondo, a fronte di 2,8 milioni uccisi ad oggi dal covid, mieté fra i 30 e i 50 milioni di vittime: oscillazione dovuta al fatto che solo in alcuni paesi il computo dei decessi poté considerarsi attendibile). Ebbene, quella pandemia sparì – o quanto meno attenuò la sua capacità letale e la sua contagiosità – senza bisogno di vaccini, dopo un paio d’anni. Da qualche parte, ho letto, fra le tante e contraddittorie dichiarazioni degli specialisti, che proprio nell’arco di un biennio dovrebbe esaurirsi anche la virulenza del covid. Sarà… Per ora, i dirigenti politici dei vari paesi si appellano alle “Big Pharma” e all’esercito di vaccinatori e, naturalmente, perseverano nel mantenimento delle misure di distanziamento sociale e di chiusure/sospensioni di molteplici attività.
A proposito di politica, si ha l’impressione che, almeno in Italia, il dibattito si esaurisca nella disputa fra “aperturisti” e “chiusuristi” (al riguardo, vi segnalo un acuto intervento di Marcello Veneziani sul suo blog, dove in primo luogo contesta la semplificazione in atto, che vede nel “bianco” degli aperturisti e nel “nero” dei chiusuristi i due soli colori della realtà, e proietta in termini di scuole filosofiche i diversi colori che, a suo avviso, dipingono questa realtà, molto più sfumata e complessa).
Ormai tg e talk show si occupano quasi soltanto di organizzazione degli hub vaccinali, di statistiche, di forniture e inadempienze delle aziende farmaceutiche, con contorni da cronaca nera di indagini su corruzioni per le stesse forniture e di moti di piazza per le prolungate chiusure e la scarsità e i ritardi dei risarcimenti. Eppure, la Grande Politica si muove, un po’ come avviene nella deriva dei continenti, anche se noi sembriamo non accorgercene, fino a quando le faglie si solleveranno, e saranno terremoti e maremoti.
Sulla scena planetaria, mentre per la questione “pandemia-vaccini” sono chiare e incontestabili le differenze fra USA, Gran Bretagna e Israele, da un lato, e Unione Europea dall’altro (e sono chiare anche le cause di tali differenze), sono in corso Grandi Giochi di potere intercontinentale, dai quali proprio l’Europa è esclusa: l’Amministrazione Biden riprende i bombardamenti e taccia di assassinio la Russia di Putin, mentre rafforza le misure anticinesi; la Russia consolida l’asse con la Turchia, soprattutto in funzione di un’egemonia nel Mediterraneo storicamente perseguita, prima dagli Zar e poi dall’Unione Sovietica; la Cina estende e rafforza la sua presenza in Africa, soprattutto mediante il finanziamento di opere colossali, quali la linea ferroviaria intercontinentale e la realizzazione della diga sul Nilo Azzurro, per limitarci a due soli esempi. Africa dove, nel frattempo, sta risorgendo lo Stato Islamico in Mozambico e non cessano le azioni della “concorrente” Al Qaeda nella fascia subsahariana. Quale sia il peso dell’Unione Europea, si è visto plasticamente nel “sofagate”, con la plateale emarginazione della Presidente Von der Layen.
Del resto, l’Unione, retta non già da una Costituzione, ma da una serie di Trattati, fin dal principio ha rinunciato a darsi un orientamento unitario in materie delicatissime, quali la politica estera, quella fiscale e quella sanitaria (per tacere della difesa). Bastavano l’unione monetaria e l’abolizione delle frontiere interne e della barriere doganali. Cioè, bastava l’Economia. Quando mai, nella storia, si sono costituiti su queste basi Imperi – o anche solo Federazioni di Stati – capaci di autonomia politica?
Quanto a noi, stiamo mettendo a dura prova il governo “dei migliori” (ma si possono considerare tali ministri come Speranza o altri che sono tutt’al più validi capi di aziende o “grands commis”?). Certo, le nostre manchevolezze vengono da lontano e da ben prima della pandemia: crescita di un galattico debito pubblico, senza una corrispondente crescita in investimenti materiali (grandi opere) e immateriali (scuola, ricerca, formazione); evasione fiscale che gareggia con la corrispondente pressione, entrambe fuori misura e fuori controllo; incapacità di varare riforme funzionali allo sviluppo materiale e morale del paese, grazie alla resistenza corporativa (nel senso peggiore del termine) di categorie che rappresentano la palla al piede di questa Italia (in prima fila, Magistratura e Burocrazia); abbandono dei territori al degrado sia naturale che indotto da industrie ciniche e miopi e da amministrazioni locali inette, nel migliore dei casi; invecchiamento della popolazione dovuto sia a fattori economici che allo sfilacciamento del tessuto morale delle generazioni che si succedono. Riguardo alle grandi opere, vi abbiamo rinunciato per la farragine delle troppe leggi e per il timore d’infiltrazioni della criminalità (questa sì, ancora “grande”): per fare un solo esempio, si parla ancora del Ponte sullo Stretto (3 km), fra mille dubbi e perplessità, e io ricordo che vent’anni fa ebbi la ventura d’inaugurare quello che collega Danimarca e Svezia (16 km); senza parlare del tunnel sotto la Manica.
Ce n’è abbastanza per deprimersi? Forse sì, anche se lo siamo già abbastanza per le nostre piccole rinunce quotidiane e per quelle i cui effetti non sappiamo ancora valutare a medio-lungo termine, quali la devastazione di una generazione privata della pienezza pedagogica e della socialità nella scuola (ma anche delle opportunità, apparentemente più banali, fornite dallo sport, dallo svago, dagli amori).